Sotto il Campanile 15 Marzo 2020

Pubblicato giorno 14 marzo 2020 - Avvisi, NOTIZIARIO

 

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Comunicato dalla Curia
Milano, 8 marzo 2020

Oggetto: Nuove disposizioni per l’emergenza COVID-19
Visto il Comunicato dei Vescovi Lombardi dello scorso 6 marzo e in ragione del Decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo 2020, si dispongono i seguenti provvedimenti:
1. Le chiese rimangano aperte;
2. Le Messe con il concorso di popolo rimangano sospese, i presbiteri sono invitati a
celebrare quotidianamente senza popolo;
3. Si sospendano anche i matrimoni e le celebrazioni esequiali. Siano celebrati, tuttavia,
la benedizione del sepolcro e il rito della sepoltura (o della deposizione delle ceneri)
come previsto dal rituale delle Esequie. Sia raccomandato agli eventuali presenti il rispetto
delle distanze imposte dalla normativa. La Messa esequiale sarà concordata con la famiglia
a tempo opportuno al termine dell’emergenza.
4. Negli oratori restino chiusi i cortili e gli altri ambienti. Pertanto non si prevedano
incontri, iniziative, riunioni, annullando, in ogni caso, eventi precedentemente fissati.
5. Per quanto concerne il sacramento della riconciliazione è preferibile non utilizzare
confessionali, ma luoghi più ampi come la sacrestia o ambienti adiacenti la chiesa. Per la
confessione nei banchi si tenga la distanza di almeno di un metro, a condizione che sia
possibile garantire la dovuta riservatezza del sacramento.
Si segnala che è possibile seguire la Celebrazione eucaristica feriale sul portale della Diocesi
di Milano www.chiesadimilano.it e, in video, su ChiesaTv (canale 195 del Digitale Terrestre).
Si informa inoltre che sul Portale della Diocesi sono pubblicati gli orari delle Celebrazioni
trasmesse dai media.
Le presenti disposizioni sono valide fino a nuovo provvedimento.
+ Mons. Franco Agnesi
Vicario Generale


 

Domenica III di Quaresima
15 Marzo 2020 – Foglio n. 104
“Per farsi vicini a coloro dai quali tutti si allontanano”

Durante il lungo pellegrinaggio del popolo d’Israele nel deserto, dopo l’uscita dall’Egitto, Dio chiamò Mosè sul Sinai e gli rivelò il suo nome “misericordioso e pietoso” (Es 34, 6) con una promessa strepitosa: “Io farò meraviglie, quali non furono mai compiute in nessuna terra e in nessuna nazione” (Es 34, 10).
Passarono i secoli e nel “momento favorevole” il Padre mandò Gesù, il Figlio, il Messia, per dare compimento alla sua parola. Purtroppo i Giudei non lo accolsero, lo combatterono, lo rifiutarono, lo insultarono, lo trattarono come un indemoniato, lo accusarono di ipocrisia e falsità.
Mi sono chiesto qual è stata la ragione che ha scatenato lo sdegno e la rabbia degli avversari. Credo che il contrasto sia nato dalla chiusura alla verità, dal non voler mettersi in discussione per paura di sconvolgere le proprie convinzioni, modificare le abitudini, perdere i privilegi. Anche nella vita pastorale purtroppo avviene così. Ci sono tante resistenze. Si cerca di parlare, spiegare, aiutare a crescere nella conoscenza di Dio e della sua parola, condividere l’amore per i poveri, ma spesso le saracinesche del cuore e della mente rimangono chiuse. Ci si rifiuta di allargare gli orizzonti. Si preferisce reagire criticando e polemizzando.
Quello che succede nelle comunità, avviene anche nella storia del mondo. Basta distogliere per un istante lo sguardo dai titoli del coronavirus, che monopolizzano tv e web in questo grave momento, per vedere la drammatica realtà, che si sta consumando ai bordi dell’Europa, dove decine di migliaia di profughi afghani, siriani, somali assediano il confine tra Turchia e Grecia o approdano disperati all’isola di Lesbo. Il governo di Ankara li ha lasciati andare e loro si sono catapultati ciecamente verso la grande speranza, l’Europa.
Nelle immagini, che ci giungono, li vediamo respinti a lacrimogeni dai soldati greci, picchiati con i bastoni sui gommoni, con i quali cercano di raggiungere quelle isole, dove noi europei andiamo in vacanza d’estate. Per scoraggiarli i militari sparano in aria e in acqua. Con le motovedette provocano onde che sbilanciano le barche stracariche e le rovesciano in mare. Un bambino di sei anni, siriano, è annegato. Un ragazzo di 22 anni è morto nei respingimenti. Altri tre sono stati uccisi. Quanti ancora? Temo che sia solo l’inizio di un disastro umanitario.
Questa volta non si tratta di barconi isolati nel Mediterraneo, né di piccoli drappelli di fuggiaschi, che scappano dai controlli di frontiera. Sono migliaia di uomini, donne, bambini. C’è chi parla di “invasione”. Qualcuno suggerisce di mandare gli eserciti a fermarli. L’emergenza ci sta rubando la ragione. Basta guardare quelle tende nel fango, i falò per scaldarsi, i piedi nudi nelle acque gelide dei fiumi, le vedove circondate da bambini, che cominciano a morire per il freddo delle notti all’aperto. Sono una crociata di miserabili, spinti come pedine “contro” le frontiere europee per i vili calcoli di chi li considera merce di scambio. Stanchi di attendere un futuro che
non arrivava mai, hanno accolto l’invito delle autorità di Ankara a prendere treni e bus, pagati dal governo, per venire poi abbandonati e gettati in pasto alla battaglia di confine.
Ci troviamo davanti a una crisi umanitaria, che chiama in causa la parte più vera della nostra identità. La storia ci ha insegnato l’accoglienza, il rispetto, l’apertura al mondo. L’Europa, invece, concentra le sue stanche energie nel rimandare indietro una moltitudine di “poveri cristi”, anziché soccorrerli e cercare una soluzione politica. Sono state rinforzate le barriere metalliche, facendo
arrivare tonnellate di filo spinato. Le ruspe delle forze armate hanno scavato fossati profondi come trincee per rallentare la corsa di chi dovesse riuscire a sfondare la doppia barriera metallica.
Quella lingua terra da proteggere è stata definita lo “scudo d’Europa”. Il lessico umanitario ha lasciato il posto alle parole dei campi di battaglia. Quello che sta avvenendo, mi fa pensare al tramonto della nostra civiltà, nata dalle conquiste della Rivoluzione Francese: “Uguaglianza, fraternità, libertà” e sulle ceneri dell’Ultima Grande Guerra con tanti nobili ideali.
Ma l’Europa siamo anche noi. Noi italiani. Noi milanesi. La vera crisi è dentro di noi. Nella nostra umanità.
Mi ha colpito un passaggio dell’omelia dell’Arcivescovo nella Prima Domenica di Quaresima:
“Ecco il momento di cercare Dio. Per essere liberi. Per cercare la riconciliazione, per praticare il buon vicinato, per spezzare il pane con l’affamato, per farsi vicini a coloro dai quali tutti si allontanano”.
Il richiamo dell’Arcivescovo nel Duomo vuoto è risuonato per me come una profezia. Mi ha toccato nell’animo.
Attraversiamo momenti difficili per la paura di un virus misterioso, che stiamo imparando a conoscere per aggredirlo e sconfiggerlo. Ma nell’ora della prova non possiamo scordare che siamo parte della grande famiglia umana. Formiamo un unico corpo, dove sono tante le piaghe e le ferite da curare. Dimenticarne una, per concentrarsi sull’altra, è pericoloso.

Occorre guardare lontano, oltre le preoccupazioni immediate: a chi soffre vicino o lontano, a quelli che rischiano
la morte con i loro bambini – uguali ai nostri – , sognando un po’ di pace, una vita tranquilla, un lavoro dignitoso. Il rischio è quello dei Giudei. Criticare, rifiutare, ragionare con propri parametri,  rifiutando quelli del Vangelo, che hanno la forza di rivoluzionare la storia.
La nostra desolata quaresima ambrosiana di chiese vuote per precauzione può diventare un “momento propizio”. Per cercare Dio e riconoscerlo nelle più sfinite facce degli uomini. Ritrovare la pietà. Sincronizzare il passo con chi fatica a camminare. Ascoltare la voce dei poveri che chiedono giustizia. Dare una svolta al mondo con scelte coraggiose. Forse è proprio questo il sogno di chi anni addietro ha gridato con il Vangelo in mano: “I have a dream!”.

don Franco Colombini