Sotto il Campanile 1 novembre

Pubblicato giorno 30 ottobre 2020 - Avvisi, NOTIZIARIO

 

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Seconda dopo la Dedicazione
01 Novembre 2020 – Foglio n. 123
Solennità di Tutti i Santi
“La nostra cittadinanza è nei cieli” (Filip 3, 20)

Giorni dei Santi e dei Morti. Un velo di nebbia sottile copre gran parte della Pianura Lombarda. Di tanto in tanto il sole si lascia intravvedere stanco nel cielo nel vano tentativo di vincere il grigiore e riportare la lucentezza del giorno. Nei Cimiteri le foglie gialle, fradice, riempiono i viali. L’autunno fa pensare alla vita che passa, soprattutto in questi giorni in cui si va dai Morti. Fino a qualche mese fa la morte era la grande censurata del nostro tempo. La si nascondeva. Ci sentivamo forti nell’illusione della sua scomparsa. Ora fa paura. Si teme possa giungere all’improvviso, sfacciata, brutale. Non si sa più quale strategia inventare per sfuggirla. In ogni momento veniamo messi in guardia a non sottovalutare la sua terribile minaccia. La pandemia ci ha ricordato che siamo creature fragili, limitate, finite, vulnerabili.

Ciò di cui poco si parla è la speranza nell’al di là. La vita eterna sembra una fiaba per bambini. Una stratificazione secolare di positivismo e materialismo, la superficialità, la distrazione, la banalità hanno eretto un muro, alto come un’onda mai vista, che impedisce di andare oltre. Chi si avvicina viene respinto. Ritorna, bussa, aspetta. Nessuno risponde. Chi ama qualcuno, che se ne è andato, urta contro il silenzio, il vuoto assoluto, il nulla. Anche i credenti spesso soffrono dello stesso smarrimento.

“Ci vediamo di là. Non abbiate paura. Siamo tutti nelle mani di Dio”. Così è morto di Covid un prete bergamasco di 95 anni. L’ultima foto lo mostra col respiratore in volto, il rosario sulla spalla, sorridente come un soldato che ha combattuto la buona battaglia. Mi ha fatto bene incontrare un credente così. So di essere in cammino nel tempo che passa, tra grandi gioie e acute sofferenze. La vita per me è sempre stata un’avventura meravigliosa, straordinaria, unica. Provo gioia pensare che, quando chiuderò gli occhi per sempre, sarà per trovare l’Eterno solo intuito. E avrà la forma di una Casa. Ci sarà un Padre ad aspettarmi, ansioso di stringermi a sé in un abbraccio caldo di amore, un Fratello maggiore, al quale ho dedicato la vita, e tutti gli amici a farmi festa. Anche Colei che ho invocato come Madre. Oltre la soglia della morte non scorgo il buio, il vuoto, un destino ignoto e misterioso, ma una Casa. Ci credo, perché me l’ha detto Gesù: “Oggi sarai con me in Paradiso” (Lc 23, 43). Me l’ha ricordato don Cirillo: “Ci vediamo di là”. A Casa. La vita oltre la vita è questa Casa, verso la quale cammino ogni giorno. Scorgerla in fondo alla strada riesce a commuovermi. In essa sono custoditi gli affetti più sacri e più cari.
Un anno fa, il 30 ottobre, la mamma mi ha lasciato all’età di 94 anni. Una morte repentina, che mi ha colto impreparato. Se ne è andata in punta di piedi, senza disturbare, come aveva vissuto: in umiltà, nel silenzio, nel nascondimento. Non amava apparire. Stava volentieri dietro le quinte, all’ultimo posto. Le bastava la gioia di essere stata utile, aver fatto qualcosa di bello per gli altri, soprattutto per me. Mi voleva libero per la gente. Era felice di vedermi arrivare trafelato, dopo una giornata senza respiro, anche se per lei il tempo non l’avevo trovato. Quando le forze le vennero meno, mi sosteneva con la preghiera, giorno e notte, instancabile. Fu ricoverata il giorno dopo il mio ritorno dall’ospedale. Come se lo sapesse e avesse voluto aspettarmi. L’ultima volta che la vidi, sembrava guarita, allegra, vivace, con tanta voglia di parlare, raccontare, fare raccomandazioni. Le chiesi di restare a farle compagnia per la notte. Rifiutò. Il giorno dopo, quando arrivai, non c’era più. Era andata incontro a Gesù da sola. Non ha voluto nessuno accanto a sé, nemmeno il figlio prete. Quel momento tutto suo doveva restare segreto, ineffabile, avvolto nel Mistero. La mamma era una donna riservata, delicata nei sentimenti, fine nel tratto. Amava la vita. Ogni giorno era felice di vivere, ma sospirava nell’attesa di “quel giorno”, quando avrebbe rivisto tutte le persone care, il suo Pino – così chiamava mio papà – , i genitori, i fratelli, la sorella, i nonni, soprattutto la mamma, che perse da piccola, a 7 anni. Sul letto mi ha lasciato un regalo: la corona del Rosario. La sua unica ricchezza.

Il papà mi ha insegnato la serenità. “Sono qui ad aspettare il Signore, che viene a prendermi”. Sono state le sue ultime parole, velate di lacrime, mentre mi fissava dritto negli occhi. Me le disse in dialetto. Poi lentamente si lasciò andare nelle braccia di Dio. Senza rimpianti. Contento della sua esistenza. Felice di rivedere i genitori, la sorella – morta a 21 anni – , gli amici che erano rimasti sepolti nella neve durante la terribile ritirata di Russia. Quante volte l’ho sentito parlare di quei ragazzi, mai più tornati! Li ricordava. Ricostruiva gli eventi spensierati, la paura, la speranza. Li chiamava per nome. Vivevano nella sua carne. La guerra li aveva resi fratelli. Un legame forte, indistruttibile, che il tempo non aveva mai spezzato. Un desiderio di ritrovarsi, custodito per anni nell’animo. Un sogno che diventava realtà.

L’esempio dei miei genitori, dei nonni, di tantissimi amici mi ricordano che “noi siamo nati per non morire mai più, siamo nati per godere la felicità di Dio”. Mi sento chiamato a testimoniare questa speranza, dando segni credibili e inequivocabili della luce che i valori ultimi gettano sulla mia esistenza e la fanno bella, attraente, felice, attraverso scelte di vita sobrie, povere, limpide, ispirate all’umiltà e alla pazienza di Cristo, il Santo di Dio. “Dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Filip 3,13-14).
La parola di Paolo mi fa ricordare le lunghe camminate sui sentieri di montagna, in cordata per procedere uniti, sicuri, legati ai più deboli. Quando, ancora lontano, intravedevo la cima, il passo si ravvivava, il fiato tornava, l’entusiasmo mi rinvigoriva, immaginando un rifugio, una tavola apparecchiata, il cibo fumante, un piatto di polenta e vino generoso, per scaldare il corpo e l’anima. Stretto fra i compagni in un abbraccio grande per avercela fatta, mentre tutto intorno le vette nell’ora del sole brillavano di una bellezza inesauribile, percepivo la promessa di qualcosa che doveva essere “per sempre”.

don Franco Colombini