Sotto il Campanile 29 novembre 2020

Pubblicato giorno 28 novembre 2020 - Avvisi, NOTIZIARIO

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TERZA DI AVVENTO
29 Novembre 2020 – Foglio n. 127
La opere che io sto facendo testimoniano di me (Gv 5, 36)

 

“Egli era la lampada che arde e risplende e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce” (Gv 5, 35). Gesù esalta Giovanni il Battista con accenti sorprendenti e pieni di ammirazione. Con poche parole dice la grandezza del precursore e il rifiuto che gli uomini del potere gli hanno riservato. La sua testimonianza mi fa ricordare un bambino di San Giuliano Milanese. In occasione della Prima Comunione scrisse una lettera a Gesù, per raccontargli quello che provava e iniziare un’amicizia importante con lui. “Gesù, fammi essere come una viola. È un fiore piccolo, umile. Cresce nascosto nell’erba. Non si vede. Si sente dal profumo. Diventando grande, non voglio essere considerato e apparire, ma far sentire il profumo della tua bontà. Aiutami, Gesù! ”.

Ascoltare il messaggio dei piccoli fa bene anche ai grandi. Ci risveglia dal torpore spirituale e ci sprona a cercare la verità, che è già in mezzo a noi. Aveva ragione Gesù, quando disse: “Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18, 3).

Il Vangelo e la voce di un bambino sono diventati il mio esame di coscienza. In questo periodo mi sono perso in tante domande ed ho dimenticato l’essenziale. Dio è infinitamente buono. Conosce il mio cuore, legge nelle pieghe più nascoste dell’animo, sa persino i sussulti indecifrabili a me stesso, giunge nelle profondità insondabili dove non mi è dato arrivare. In tanti modi e in mille lingue mi sta dicendo di accettare la vita nel suo mistero, abbracciarla, accoglierla in ogni opportunità. Essa è più grande di me e sfugge alle logiche del pensiero umano. Mi chiede di non ridurre la mia quotidianità a un esercizio di ragioneria, fatto di numeri, proporzioni, percentuali nell’attesa di poter agire come voglio e desidero. Mi invita a non perdere tempo, ad essere generoso, traboccante di carità, superare la misura minima del contagocce, lasciarmi andare alla fantasia dell’amore. Lui stesso è venuto a riempire di vita l’umanità. Ha curato i mali del mondo. Ha incrociato le persone con una benevolenza inusuale, senza forzature, accompagnate da una gratuità piena, generosa, totale. Nella sua persona il Regno di Dio si è fatto vicino.

Gesù, mi illumina di luce nuova. Le esigenze e le difficoltà del momento sono una chiamata all’amore più grande, da affrontare con una disponibilità tempestiva, gioiosa, incondizionata. E io non posso ritardare l’ora di donarmi. Molti testimoni mi spingono a vivere la fede rimanendo in trincea fino all’ultimo come tanti camici bianchi e persone di buona volontà.

“O mio Dio, dovrò morire sulla breccia, nell’esercizio del mio dovere, ma fa’ che io sia l’ultimo”. Chi ha pronunziato queste parole strazianti è stato il dottor Matthew Lukwiya, stroncato vent’anni fa dal virus Ebola nell’ospedale di Gulu in Uganda. Era uno dei medici più preparati. Dopo gli studi a Londra aveva scelto di tornare nella sua Africa per mettersi al servizio dei più deboli. Quando si presentarono i primi sintomi, non poté non misurarsi con le domande più scomode: “Chi potrà mai capire i piani del Signore?”, ma si lasciò andare alla sua volontà. Aveva 43 anni, una moglie e cinque bambini. Due giorni prima Ebola si era portato via Grace Akullo, un’infermiera di 27 anni, cosciente fino all’ultimo respiro. Fu proprio il dott. Lukwiya a restarle accanto: “Non ho mai visto morire una giovane donna con tanto coraggio, fede ed abbandono nelle mani del Signore”. L’unica sua preoccupazione erano i due figli gemelli di quattro anni.

Questo terribile virus, di cui poco si parla, nel 1995 fu causa della morte di sei suore italiane della Congregazione delle Poverelle, nella Repubblica Democratica del Congo. In Italia, fra il 1930 e il 1960, circa quaranta suore giovanissime morirono di Tbc all’spedale Pizzardi di Bologna. Si erano rifiutate di abbandonare gli ammalati di tubercolosi, fedeli alla scelta di “stare con gli ultimi sempre”.
Il dott. Carlo Urbani lasciò il mondo col fiato sospeso, quando si spense, dopo aver individuato sul campo la sindrome respiratoria acuta della Sars. Una scoperta che gli costò la vita. Un cristiano convinto, cresciuto nella fede e al servizio del prossimo. Amava le cose belle, correva in moto, suonava il sax, volava col deltaplano, viaggiava il mondo … , ma nel momento supremo non si tirò indietro. Morì a Bangkok nel 2003, dove si trovava come esperto dell’OMS. Aveva 47 anni.

Da ragazzo ricordo di aver letto la vita di Padre Damiano de Veuster. Mi aveva affascinato, al punto da desiderare di partire come medico missionario in paesi lontani. Dedicò ogni energia ai lebbrosi. Si pensava che l’unico rimedio per fermare il morbo fosse l’allontanamento. Uomini, donne, giovani, bambini, anziani venivano strappati a forza dalle famiglie, portati via dai villaggi incatenati e mandati a morire a Molokai, l’isola maledetta. Chi vi metteva piede non tornava più indietro. Padre Damiano, giovanissimo, fresco di ordinazione sacerdotale, si offrì di andare volontario in quella remota località, abbandonata da tutti. Scelse di seppellirsi vivo nella terra dei “morti”. Fece cose impossibili. Costruì la scuola, l’orfanatrofio, l’ospedale. Riportò l’ordine, il rispetto, il lavoro. Restituì la dignità, il gusto e la gioia di vivere a gente disperata. La fede, l’amicizia, la bontà cambiarono il volto della comunità. Morì di lebbra nel 1889 a 49 anni.

A finire contagiato da coloro cui prestava servizio – poveri e malati delle periferie torinesi – fu anche Piergiorgio Frassati. Un giovane brillante, figlio del fondatore della “Stampa”, amante della montagna e degli scherzi fra amici, con un futuro strepitoso davanti. Si ammalò all’improvviso e morì per una poliomelite fulminante il 5 luglio 1925. Di lì a poco si sarebbe laureato in Ingegneria: una facoltà scelta perché lui – un rampollo della Torino bene – voleva condividere le sorti dei minatori. Aveva 24 anni.

Nell’emergenza, che ci ha investito con la violenza di una tempesta, mi vengono alla mente questi uomini e donne, che hanno creduto all’amore. Hanno la forza di una parola viva fatta carne. Mi mostrano il volto buono del Padre. Sono i suoi figli. Portano a compimento l’opera di Dio, che asciugherà ogni lacrima, strapperà per sempre il pungiglione della morte, frantumerà il lamento, svuoterà l’angoscia. Mi invitano a lasciar spazio alla vastità del cuore, scommettere sul tempo, camminare nella pazienza dell’attesa, far prevalere la grandezza dell’amore, che lo Spirito mi ha piantato nel petto. Come quello di Gesù, indomito, forte di tenerezza, caldo di umanità. Mi portano serenità nell’animo e fede nel futuro. Ogni creatura e l’intero universo stanno nelle mani di Dio. Il dolore diventerà grazia e la Provvidenza svelerà il suo disegno .

don Franco Colombini