Sotto il Campanile 10 gennaio

Pubblicato giorno 8 gennaio 2021 - Avvisi, NOTIZIARIO, Senza categoria

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BATTESIMO DI GESÙ

10 Gennaio 2021 

Foglio n. 133 Tu sei mio Figlio!

 

“Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento” (Mc 1, 11).

Così il Padre presentò Gesù all’umanità, quando ricevette il battesimo al Giordano da Giovanni il Battista. Uscendo dall’acqua, i cieli si squarciarono e lo Spirito discese su di lui come una colomba. Mi colpiscono queste parole. Dio le ha pronunciate anche per me il giorno in cui venni portato al fonte battesimale: “Tu sei mio figlio, ti voglio bene, mi piaci, mi vedo in te, sei il figlio che ho sempre desiderato di avere”.

Il Battesimo è il Natale che si ripete. Dio scende nella mia carne, portando il suo Spirito. Il respiro del cielo. E io rinasco Non è facile scorgere nell’uomo il volto di Dio. Non lo fu nemmeno per gli apostoli. Per lunghi mesi vissero con Gesù senza scoprire la sua vera dentità. Fu sulla montagna, al Tabor, che Gesù aprì loro gli occhi, ed essi videro quel che è invisibile e udirono quel che è inascoltabile:

“Questi è il Figlio mio prediletto. Ascoltatelo!” (Mc 9, 7). Le stesse parole del Battesimo. Poi, quando la luce si spense e la parola tacque, si ritrovarono nella quotidianità, con un uomo qualsiasi e dovettero aggrapparsi alla fede. Come è difficile per l’uomo vedere Dio ed accorgersi di Lui! C’è chi lo cerca con la voracità di un affamato e si ferma davanti all’impossibilità di incontrarlo nella storia, come un ricercatore di diamanti in mezzo alle pietre. Oppure c’è chi, sommerso dalle cose, dai piaceri, dalla infinite possibilità senza limiti, pensa di bastare a se stesso. Si intontisce, si esalta, si isola fino a rinchiudersi nella solitudine che lo priva persino del respiro della libertà. Lo scriveva in modo efficace Gregorio di Nissa: “Nulla di quanto si ricerca nella vita nell’ambito del piacere raggiunge la pienezza. È come un vaso forato: si versa sempre qualcosa nel fondo del desiderio, senza riuscire a portare il desiderio alla sazietà”.

Il vuoto, l’insoddisfazione, la noia, la nausea, l’amarezza del vivere, l’inquietudine … . Siamo bravi a trovare le cause del disagio. Attribuiamo la colpa alla fragilità psicologica, all’inesperienza dei politici, all’insufficienza degli scienziati, all’inefficacia delle misure economiche, alle cospirazioni di poteri di vario genere. L’emergenza esistenziale è il non renderci conto che tale insaziabilità è costitutiva dell’essere umano. Non ci siamo fatti noi e non possiamo essere felici da soli. Se andassimo al fondo di noi stessi e ci mettessimo in ascolto della nostra esperienza, risulterebbe quanto mai vera l’affermazione di Martin Heidegger: “Ormai solo un Dio ci può salvare”. E lo ha fatto in Gesù! Nei mari della storia mi sono sempre aggrappato a Lui, come a una tavoletta di legno, che porta lontano. Da nessuna parte ho trovato un solido appiglio, dovunque abbia volto lo sguardo. O la luce o il baratro del nulla. In questo tempo, in cui si sta addensando un senso di impotenza al fondo dei cuori, la fiducia negli uomini è tanta, ma insufficiente.

Senza Gesù risuonerebbero tristi le parole di Kierkegaard: “La nave è in mano al cuoco di bordo e le parole, che trasmette il megafono del comandante, non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani”. Colui che ha detto di essere “la via, la verità e la vita” indica la direzione e fa strada con noi. Ho attraversato tante notti. Mi sono sentito calato nella pelle di non credenti e peccatori, ma in me la fiducia non è mai venuta meno. L’alba di un nuovo mattino non si è mai fatta aspettare. Al termine della notte il sole sorgeva più splendente di prima. Provavo un senso di pace guardare il mondo, che mi girava attorno, vederlo bello e sentire di essere parte di qualcosa di incommensurabile, che non poteva scomparire nelle acque infide del male e della morte. Vorrei che il mio sguardo non si allontanasse mai da Gesù e potessi anch’io ripetere in ogni momento le parole di uno dei più grandi teologi del secolo scorso, Karl Barth, al termine della sua lunga vita: “L’ultima parola che ho da dire è un nome: Gesù Cristo.

Egli è la grazia ed è lui l’ultimo, al di là del mondo, della Chiesa e anche della teologia. … Ciò che mi ha occupato per tutta la mia lunga vita è stato dare sempre più rilievo a questo nome e dire: Là …! In nessun nome c’è salvezza, se non in questo. E là è appunto anche la grazia. Là è anche l’impulso al lavoro, alla lotta; l’impulso alla comunione, all’essere insieme agli altri uomini. Là è tutto quanto ho provato nella mia vita, nella debolezza e nella stoltezza. Ma tutto è là!” Vivo in mezzo alla gente. Sono stato mandato. Da quando Dio in Gesù Cristo ha assunto il volto di un uomo, l’uomo in Gesù Cristo ha assunto il volto di Dio. Spesso me lo dimentico. Faccio fatica a riconoscerlo. Ma è proprio così. In campeggio con i giovani era una bella consuetudine per la veglia della sera accendere il falò, cantare, pregare, raccontarsi la vita sotto le stelle. L’indomani ritrovavamo i rami bruciati in un mucchio di cenere e, sotto, qualche spezzone di brace ancora viva. Allora si soffiava, si soffiava forte tutti insieme, fino a riaccendere il fuoco. Andavamo al torrente a riempire le pentole di acqua, cucinavamo la polenta, le salsicce, gli spiedini, persino le rane e le cavallette. Che festa! Sulle montagne, in mezzo ai prati, nei campi dell’Oratorio, nelle case della carità, nell’oscurità della chiesa le nostre esistenze si sono mescolate in un’amicizia, che dura ancora e ci scalda l’anima.

È una mia grande certezza. In ogni cuore c’è un tizzone acceso, dove riacciuffare l’uomo. La cenere è morta, ma la brace è viva. Può divampare un incendio, se il vento che soffia è quello dell’amore, della pazienza, della bontà, della fiducia. In carcere ho imparato a non giudicare ed avere rispetto per gli errori, che hanno portato alla condanna. Ho assistito infinite volte al miracolo della vita vincere la morte. Ho visto uomini e donne rinascere nello Spirito. Ho toccato con mano l’ostinazione di Dio che non si arrende, si inventa l’impossibile per ritrovare i figli che ama. Mi ha sempre anticipato. Quando giungevo, era già presente. Mi veniva spontaneo inginocchiarmi davanti a quelle carni, segnate dal peccato, sporche di sangue innocente, ma piene della presenza di Dio. Gli uomini le avevano giudicate, condannate – e giustamente – , rinchiuse dietro le sbarre.

Ma Dio era lì a ripetere: “Tu sei mio figlio, l’amato, in te mi compiaccio”. Non le rinnegava, le guariva col perdono e la speranza di un nuovo futuro. Che Mistero! Un dato di fatto, che solo l’amore può spiegare. L’uomo è grande. Calpestarlo diventa un crimine, il più grave dei delitti. Lottare contro tutto ciò che lo avvilisce e impedisce alla vita di manifestarsi è un dovere. Dopo la pandemia ci sarà un vuoto da riempire. L’ideologia, l’individualismo, il liberismo, le tante risposte, che la società si è data, hanno fallito. Non rimane che il Vangelo. Un sogno da costruire insieme per una città buona e piena di compassione, dove tutti abbiano una casa, un lavoro, una mano, una parola. Gli abitanti non sono stranieri, rom, sinti, profughi, ma persone. Gli invisibili hanno un volto. Gli anziani rimangono nelle proprie case. Ad ogni ammalato – e non solo ai ricchi – è garantita la giusta assistenza. Sognare e operare insieme è possibile, molto più reale delle illusioni di onnipotenza o le ubriacature del benessere. Costruire il futuro nasce dall’aver perso la fiducia in quello che non valeva e averla ritrovata nel tesoro nascosto nel campo.

 

don Franco Colombini