Sotto il Campanile 10 maggio

Pubblicato giorno 8 maggio 2020 - Avvisi, NOTIZIARIO

 

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V Domenica di Pasqua
10 Maggio 2020 – Foglio n. 112
Gesù si fa prossimo nella carne dell’uomo

 
“Forza e coraggio, mai ‘pagura’! ”. Così diceva don Peppino, il mio predecessore.
Me lo ripeteva tra lo scanzonato e l’ironico – come sapeva fare lui – , ma a volte anche con un tono di appassionata
fiducia. Voleva ricordarmi che non c’è ragione per lasciarsi abbattere e darsi per vinti. Lo scoramento è possibile, ma
non ha senso, nemmeno al tempo delle domande senza risposta, dei sacrifici più duri, delle decisioni impopolari, delle
scelte contro corrente e, per noi oggi, del “distanziamento fisico” dagli altri.

Le fatiche e le prove della vita pesano, rallentano il passo, invitano a tornare indietro.
Esse, però, non portano solo tristezza e angoscia. Sanno suscitare un forte impulso a resistere, tenere la giusta direzione, cominciare e ricominciare tutte le volte che è necessario, perseverare. Una tenacia che si fa più salda, sino a diventare lucida dedizione , quando si è sostenuti da una fede incrollabile.

Il momento difficile, che il mondo oggi sta affrontando, ha coinvolto ogni realtà di vita e messo
a dura prova la nostra comunità cristiana. Essa non ha mai smesso di condividere situazioni di
sofferenza e disagio, veicolare la parola di Dio, affiancare con la preghiera e l’adorazione quotidiana
chi non può essere avvicinato e soffre in solitudine. Posso assicurare che il nostro cuore
è sempre stato lì, in quelle stanze, accanto a quei letti, vicino a quelle lacrime, dentro quelle
pareti affamate. Forse qualcuno, preso dalla disperazione, non si è accorto. Ma noi c’eravamo.
La fraternità supera ogni ostacolo di spazio e di tempo, raggiunge tutti nell’Unico, che è in tutti.
“Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo
dimora presso di lui” (Gv 14, 23). Dio abita nella carne dell’uomo. La coinvolge nel suo
amore senza misura, universale, affamato e assetato di fraternità. Si fa prossimo, cerca chi si
è perso nei pantani dell’infelicità e delle preoccupazioni insormontabili, offre la vita senza nulla
in cambio, non si arrende davanti ai fallimenti e alle sconfitte, sa che la gioia della rinascita
arriverà per tutti. Conforta, consola, illumina, incoraggia, rialza, cammina sulla stessa strada.
I suoi discepoli sono la sua presenza. La speranza sta nel Dio di Gesù, che si ostina a tenere
aperta la storia, anche quando essa sembra ripiegarsi su se stessa.

“Ci organizziamo il domani nei nostri pensieri, ma poi tutto va in modo diverso, molto diverso”, scriveva
a 26 anni Etty Hillesum, una ragazza ebrea, olandese, dal campo nazista di Westerbork. Gli
storici dicono che le grandi epidemie – insieme ai cataclismi, alle guerre, alle carestie – hanno la
forza di scuotere intere civiltà, provocandone la rigenerazione morale e spirituale. Oggi ci troviamo
sospesi tra la vita e la morte, tra un passato, a cui non si può tornare, un presente terribile e un
futuro ancora ignoto, che potrà essere peggiore o migliore. L’incertezza fa spavento, ma offre una
opportunità per ricominciare, ripensando il tutto. Una domanda forte di verità su ciò che siamo e
di amore fra noi.
La politica per prima è chiamata in causa. Deve scegliere se prendere la strada dell’autoritarismo
o scommettere sulla corresponsabilità, lasciarsi andare all’egoismo nazionalistico o farsi parte
attiva di una battaglia comune, che è quella della cooperazione. L’Occidente da tempo si trova in
posizione di stallo. Ha difficoltà a misurarsi con i rischi e le sfide di questo secolo. E’ più attento
a non perdere il benessere che investire sul futuro. Ha scarsa volontà a ridurre le disuguaglianze
e offrire prospettive alle nuove generazioni. Si trova intimorito dai costi dell’invecchiamento, anziché
godere per le persone che vivono più a lungo. Dice di essere multietnico, ha abbreviato le
distanze, ha fatto del mondo un piccolo villaggio, ma ha mantenuto il sospetto verso chi viene da
lontano, ben disposto a offrire consenso a chi propone di alzare muri, barriere e fili spinati. Parla
e dipinge di verde, ma dietro la facciata fatica a cambiare le abitudini e transitare verso un altro
modello socioeconomico. Ora, colpito dal virus, si accorge di essere fragile, limitato, incapace di
un confronto costruttivo, invecchiato, indebolito dalle polveri sottili. Serve una violenta sterzata.
Nelle ultime settimane siamo stati colpiti dallo straordinario spirito di abnegazione che ha unito medici,
infermieri, ricercatori, studiosi. Si sono consumati per salvare vite umane, a rischio della propria
salute e nello sforzo di non lasciare indietro nessuno. La scienza è a un bivio. Deve scegliere
tra una strategia, che non si fa scrupolo di passare sopra l’esistenza di migliaia di persone, pur di
arrivare al proprio obiettivo, e una concezione nella quale la conoscenza viene messa al servizio
di tutti, a cominciare dai più fragili. Ogni vita è sacra. Anche quella dei poveri. Il personale sanitario
ci indica la strada del sacrificio, che non fa preferenze di persone, già tracciata dal Vangelo: “Non
c’è amore più grande di chi dona la vita per i propri amici” (Gv. 15,13).

Mi è rimasta scolpita nell’animo l’immagine di Papa Francesco, che, zoppicando, ha attraversato
le vie di una Roma deserta per andare a pregare davanti al Crocifisso e quando, nel buio della
notte, sotto la pioggia battente, in una Piazza San Pietro vuota, ha alzato la sua voce accorata a
Dio, potandogli il dolore dell’uomo. Mi piace una Chiesa così. Povera, umile, impotente, nascosta
tra la gente come sale per dare sapore e lievito per far fermentare il bene, ricca di Dio, a cui si
affida. Disposta a lasciarsi permeare dal modo di stare al mondo di Gesù, del suo farsi prossimo
ai malati ed esclusi, a trasformare la propria fragilità in uno strumento incondizionato di amore per
ogni essere umano.

Ci troviamo di fronte al futuro, agli inimmaginabili sentieri della ripresa. Vorremmo ritrovare quelli
ben noti, di sempre. Non credo sarà possibile. Sono convinto che la speranza oggi prende forma
nella comunità dei discepoli, che ha tanta voglia di fare, progetta, tenta, sbaglia, cerca di rimediare,
non ha punti fermi né strutture solide o pietre dove posare il capo. Ha solo il Cristo risorto. Il suo
Spirito la spinge a non temere le sconfitte, a rialzarsi, a ricominciare, confidando nell’amore, dove
ogni diversità si compone in un meraviglioso mosaico. E’ la sapienza degli inizi. La cantiamo nel
giorno di Pasqua, immaginando due giovani che si incontrano felici sulla strada e si interrogano: “I
tuoi occhi riflettono gioia: dimmi cosa hai visto, sorella mia? Ho veduto morire la morte: ecco cosa
ho visto, fratello mio!” . E allora avanti con speranza!

don Franco Colombini