Sotto il Campanile 10 Marzo 2024

Pubblicato giorno 7 marzo 2024 - Avvisi, In home page, NOTIZIARIO

 

 

SCARICA == > sotto il campanile 10 Marzo 2024

IV DOMENICA DI QUARESIMA
10 Marzo 2024 – Foglio n. 253
“Gesù vide un uomo cieco dalla nascita” (Gv 9, 1)
Quanto è importante lo sguardo! Quante cose si dicono con un solo sguardo! Quando è buono, trasmette amore, fiducia, amicizia. Spesso lo si accompagna con un gesto di affetto, dove appare tutta la disponibilità a farsi carico di chi ci sta vicino.

Diceva la volpe al Piccolo Principe:
“Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.

La tenerezza è lo stile con cui Dio si è avvicinato all’umanità, a iniziare dallo sguardo di un Neonato nella mangiatoia di Betlemme.

Si è schierato con chi era disprezzato, ha cercato i poveri, ha accolto i peccatori, ha insegnato ai ricchi e ai potenti ad abbassarsi, fino a mettersi all’ultimo posto per amare e servire coloro che non hanno mai conosciuto la gioia di essere amati.
Un giorno Gesù, “passando, vide un uomo cieco dalla nascita” (Gv 9, 1) e ne provò compassione. Fu preso dal desiderio di guarirlo, di saperlo sano, rigenerarlo con una urgenza che non poteva aspettare. E passò all’azione: “Va’ a lavarti alla piscina di Siloe. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva” (Gv 9, 7). L’infinito orizzonte dello sguardo di Dio contrasta con la banalità dei discepoli, la miopia dei vicini, la paura dei genitori, la dura e orgogliosa testardaggine dei farisei. Avevano davanti l’opera di Dio e non la vedevano. Gli occhi erano chiusi a Colui che aveva affermato di “essere la luce del mondo” (Gv 9, 5). Bastava aprirsi al suo bagliore per contemplare l’immensità di un amore senza confini, che rivestiva il cieco della stessa bellezza del sesto giorno della creazione, quando Dio formò l’uomo e la donna e vide che erano creature stupende.
Mi ha colpito il gesto di Aaron Bushnell, l’aviere americano che si è dato fuoco davanti all’Ambasciata di Israele a Washington per protestare contro quel che ormai a Gaza è sempre più una ritorsione contro un intero popolo da parte dell’esercito di Israele dopo
il pur efferato attacco del 7 ottobre di Hamas. Aaron ha visto il dramma della sua gente e lo ha gridato al mondo. Ha registrato un video: “Non sarò più complice del genocidio.
Sto per intraprendere un atto di protesta estremo, ma, rispetto a quello che le persone hanno vissuto in Palestina per mano dei loro colonizzatori, non è affatto estremo. Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso sarà normale”. E mentre bruciava tra
le fiamme, urlava: “Free Palestine”.
È follia sentire in modo così violento il dolore degli altri? Penso di no. Anche Jean Palach compì lo stesso gesto sulla piazza di Praga nel lontano gennaio 1969 per protestare contro l’invasione sovietica. Una scelta che spiattellò davanti al mondo il dramma di un popolo impotente contro la dittatura spietata del Comunismo di Mosca. Un altro aviere, il maggiore Claude Eatherly, un texano di 26 anni, confessò pubblicamente il proprio rimorso per ciò che aveva fatto a Hiroshima. Quel giorno aveva l’incarico di valutare la visibilità dell’obiettivo. Fu lui a dare il via libera al lancio della bomba. Una impresa che lo perseguitò per tutta la vita, portandolo a un’alienazione autodistruttiva.
Il sangue innocente, anche se non visto, uccide dentro, toccando le fibre più profonde del cuore.
Mi viene in mente il romanzo La Peste di Camus. L’ho letto più volte negli anni del liceo.

Quando scoppiò, il dottor Rieux e i suoi amici, Rambert e Tarrou, non fuggirono dal paese devastato dal morbo. Si fermarono a prestare soccorso anche a costo della vita, perché – come disse Rambert – dopo “che ho veduto quello che ho veduto, so che io
sono di qui, che lo voglia o no. Questa storia riguarda tutti”.
Gaza è anche la nostra storia. Non restarvi con la mente e con il cuore è disertare dalla coscienza. Ce lo ha ricordato un aviere, dandosi fuoco, con l’impotenza di un gesto più forte del tuono. Spesso il male si fa assoluto. L’odio domina incontrastato. Il cielo si tinge
di nero e sull’umanità calano le tenebre più minacciose. In quelle ore buie non rimane altro che limitare il disonore. I “Giusti” di Israele ebbero il coraggio di piantare la vita in mezzo alla morte. Fece così anche un giovane rabbi di Galilea. Salì sulla croce per dire
a tutti di non metterci più nessuno, nemmeno i ladri. Aaron aveva 25 anni. Non so se ha conosciuto Gesù. Ma è stato un buon discepolo.
La scelta di consegnare il premio Nobel per la Pace all’iraniana Narges Mohammadi è un messaggio chiaro a non dimenticare la condizione disperata della schiavitù moderna femminile. La lotta per costruire un mondo più giusto è ancora tutta in salita. La “Festa
della donna”, appena passata, ce lo ha ricordato. Ce ne parla Antonella Mariani in un articolo apparso su Avvenire il 7 Ottobre dello scorso anno .
BASTA PRIGIONI DI STOFFA E FERRO
“La democrazia entra in Iran attraverso la porta dei diritti delle donne”; lo auspicò l’attivista Shrin Ebadi, 76 anni, quando nel 2003 ricevette il Nobel per la pace. Ora è una sua “sorella” minore, Narges Mohammadi, a ottenere vent’anni dopo lo stesso riconoscimento per la “sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran”. Ben poca democrazia,
nel frattempo, è entrata nel Paese nonostante il ribollire delle proteste giovanili, ragazzi accanto a ragazze.
Narges Mohammadi nei suoi 51 anni di vita ha collezionato 13 arresti, 5 condanne per un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate. Oggi è detenuta con altre 300 compagne nel carcere di Evin e in un suo recente articolo per il “New York Time”, fatto uscire di
nascosto nel primo anniversario dell’omicidio di Mahsa Amini, il 16 settembre, ha scritto “Più ci imprigionano, più diventiamo forti”. Una donna indomita, segnata nel fisico dalle percosse e dalla malattia – soffre di un disturbo neurologico e ha subito un intervento al
cuore – ma non piegata. La sua Lotta è quella di tante iraniane, rinchiuse dietro sbarre di ferro per non aver obbedito a dogmi e regole maschiliste e patriarcali travestiti da religione. Oggi la sua lotta è anche quella per la sopravvivenza della 16enne Armita Garavand, in coma dopo aver subito pochi giorni fa un pestaggio perché non portava il velo in metropolitana, come migliaia di sue coetanee. La sua lotta è per tutti, uomini e donne del suo Paese, perché è la “ meglio gioventù” dell’Iran a ribellarsi a un destino di oppressione, come ha scritto in un recente report Amnesty International: se a qualcuno è negata la cittadinanza piena – in nome del genere, dell’etnia, della religione, degli orientamenti politici e sessuali – nessuno è davvero cittadino.
E “il tutti o nessuno” è la chiave. Trai candidati al Nobel, in tandem con Narges Mohammadi, compariva insistente il nome di un’altra donna di immenso valore: l’afghana Mahbouba Seraj. Quando mesi fa aveva saputo che il suo nome era nella cinquantina finale,
dalla sua casa di Kabul, dove ha scelto di restare nonostante la cittadinanza americana per tenere aperti i rifugi per le vittime di violenza domestica, aveva riso al telefono con Avvenire.

“Un onore per me, ma più ancora è un sostegno prezioso per le donne di Teheran e di Kabul che lottano per non scomparire”, aveva commentato nell’intervista realizzata nell’ambito del progetto #avvenireperdonneafghane. Siamo felici dell’assegnazione del Nobel a Norges Mohammadi e che grazie a esso sulle donne iraniane si siano accesi di nuovo i riflettori, dopo le numerose campagne sociali in tutto il mondo. Ma noi quegli stessi riflettori vogliamo – pretendiamo – che si allarghino per illuminare ciò che accade nel confinante Afghanistan, abbandonato dagli Stati Uniti ai talebani con la precipitosa ritirata dell’agosto 2021. Anche lì le donne scendono in piazza, ma non sentiamo il loro urlo. Anche lì vengono rinchiuse in prigione, ma non avvertiamo la loro sofferenza. Vengono lapidate e annegate per peccati-reati che non lo sono affatto, ma non riusciamo a credere a quei rari e feroci video che vengono diffusi dalle attiviste rifugiate all’estero.

Vengono rinchiuse in gabbie di stoffa – i burqa – e allontanate dalla scena pubblica, perché sia più facile tenerle in pugno in quella privata. Vengono lasciate senza istruzione, perché l’ignoranza facilita la sottomissione. La resistenza iraniana scende in piazza e
rischia gli arresti, quella afghana tiene aperte le scuole clandestine. Le donne iraniane si tolgono il velo, le afghane con il velo addosso inventano modi per sopravvivere. Non vale un Nobel tutto questo? Quel riflettore che oggi illumina Teheran e getta di rimando
una flebile luce anche su Kabul, sia per noi una spada infilata nel cuore. “Non lasciateci sole, per favore non dimenticateci”, concludeva la sua intervista ad Avvenire Mahbouba.

E non vogliamo dimenticare nemmeno le donne oppresse da regimi illiberali o gruppi terroristici nel mondo: le giovani rapite in Nigeria, le donne stuprate per cancellarne l’appartenenza etnica o nazionale nel Tigrai, in Sudan, nel Myanmar, in Ucraina, le bambine
infibulate in tante tribù ataviche dell’Africa centrale … . Un oceano di sofferenza al quale il Nobel a una singola eroina, che lotta “contro l’oppressione delle donne (in Iran) e per la promozione dei diritti umani e della libertà per tutti” in parte risarcisce. E in parte denuncia con maggior fragore.

don Franco Colombini