Sotto il Campanile 11 Ottobre

Pubblicato giorno 9 ottobre 2020 - Avvisi, NOTIZIARIO

 

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VII Domenica dopo il Martirio di San Giovanni Battista
11 Ottobre 2020 – Foglio n. 120
“Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore” (Mt 13, 18)

La parabola del seminatore presenta quattro tipi di terreni, dove cade il seme della Parola. Soltanto l’ultimo dà frutto. Mi sono interrogato sull’’esperienza drammatica del Covid 19, per raccogliere un messaggio positivo e incamminarmi verso la normalità. Un viaggio nel quale non potrò più fare a meno di portare con me la memoria viva e dolorosa di quel che ho sperimentato con tutte le sue conseguenze. Non voglio meritarmi il rimprovero di Gesù: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!” (Mt 13, 14-15).
Ricordo con sofferenza i lunghi giorni del Lockdown, quando nel silenzio assoluto passavo interi pomeriggi in adorazione davanti a Gesù esposto nella chiesa deserta. “Il mio cuore è vuoto. Il vuoto è uno specchio che mi guarda. Vi vedo riflessa la mia immagine e provo disgusto e paura. … È così crudelmente impensabile percepire Dio con i propri sensi? Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio sapere. Voglio che Dio mi tenda la mano, che mi sveli il suo volto, mi parli”. Quante volte queste parole della partita a scacchi con la morte, rappresentata ne “Il settimo sigillo”, mi sono rimbombate nel cuore. Sentire Dio, percepire l’Assoluto, ascoltare la sua voce, intravvedere un senso nel buio e nel vuoto dell’esistenza, che mi appariva fragile e incerta. Il mondo del piacere e del consumo è andato avanti per anni senza porsi domande, cullato dal delirio dell’onnipotenza e dell’immortalità. Un virus, sconosciuto e invisibile, all’improvviso ha messo tutto in discussione. Nell’incertezza su quel che sarebbe potuto accadere e andava fatto per un futuro più abitabile, avvertivo l’esigenza di avere Dio vicino a cui affidarmi. Lo cercavo con l’affanno di un ammalato in terapia intensiva. Sentivo il bisogno di consegnargli inquietudini, timori, paure. Volevo rifugiarmi tra le sue braccia come un bambino, essere portato al di là del male, recuperare la fiducia. Quando alzavo l’Ostia Santa a benedire il mondo nella solitudine più assoluta, il fremito della speranza mi correva nelle vene, ritrovavo il vigore, la voglia di consumarmi e spendermi, non vedevo l’ora di essere liberato dalla prigionia domiciliare e ricominciare. La forza della vita e il silenzio della morte mi hanno toccato in profondità. Lo ricordo ogni giorno, quando sento vicino tanti amici, compagni di seminario, parrocchiani, preti, operatori sanitari, che non ci sono più, presi dal morbo, mentre combattevano in trincea la battaglia per la vita. La malattia mi ha costretto a rivedere il mio drammatico bisogno di Dio.

Spesso mi trovo a ripetere le parole di Carlo Acutis, che vorrei anch’io pronunciare al termine dei miei giorni: “Muoio felice, perché non ho mai sprecato un minuto della mia vita in cose che non piacciono a Dio”. A 15 anni questo adolescente aveva scoperto il segreto della felicità. Una cosa è certa: non posso archiviare in fretta questa esperienza. Ho ancora molto da imparare: valorizzare l’essenziale, riscoprire il primato di Dio, abbandonare lo stress, trovare tempo per gli amici, condividere la gioia di camminare e crescere insieme, lasciare che la domanda della sofferenza e della morte interpelli la mia fede, verificare l’efficacia delle parole quando annuncio la Pasqua di Gesù. E molto altro ancora in quei mesi mi è pesata la solitudine. Quando non era consentito radunarci in assemblea, la possibilità di raggiungere i fedeli attraverso i vari mezzi di comunicazione è stata preziosa. Mi ha permesso di sentirmi unito nell’ascolto della Parola, nella preghiera comune, nell’Eucaristia. L’impossibilità di vivere il giorno del Signore ha fatto risaltare la bellezza della fraternità. “Senza domenica non possiamo vivere”. I martiri di Abilene avevano ragione! Mi mancava la gente. Chiamavo per telefono anziani, ammalati, famiglie in difficoltà, amici. Li raggiungevo con i messaggi. Ma averli davanti, parlare, ascoltarli, bere un caffè, fare una passeggiata, visitarli a casa, abbracciarli nei momenti del dolore, esultare nella gioia, accostarsi al capezzale dei morenti, stare dentro l’evento sacramentale, è tutta un’altra cosa!

Non potrò mai cancellare dal mio animo l’angoscia con la quale ho accolto i defunti al cimitero per l’ultima benedizione, senza funerali, con pochi parenti, a porte chiuse, senza la possibilità di un abbraccio, assillati dalla paura di dirci una parola di conforto, perché il virus poteva cogliere l’occasione, insinuarsi nel dolore e colpire senza pietà. Con quale tristezza li ho visti scendere nella tomba accompagnati da occhi velati di lacrime e dalla voce silenziosa del cuore che pregava. Mai più quella terribile esperienza! Ora avverto un bisogno fisico di stare insieme, fare comunità, essere famiglia. Tra le espressioni più infelici di questi giorni c’è quella del “distanziamento sociale”. Non intendo contestare le distanze di sicurezza, che vanno mantenute con senso di responsabilità. Ma la Chiesa e la società hanno bisogno di crescere nella verità di relazioni umane, che siano espressioni di vicinanza, affetto, amicizia, condivisione, sostegno. Nei mesi oscuri della pandemia la comunità si è dimostrata solidale, responsabile, creativa in tante iniziative di annuncio, di preghiera, di carità, di prossimità. I giovani sono stati formidabili. Accorrevano ad ogni ora del giorno e della notte, quando li chiamavo per rispondere alle necessità dei poveri. I volontari non si sono risparmiati. La disponibilità prima di tutto. La catena della solidarietà non ha mai lasciato mancare il cibo ai bisognosi. Siamo stati contagiati dall’amore, l’unico “virus” che non ha bisogno di vaccini, di controlli, di tamponi, di mascherine. Più si diffonde e meglio è per tutti. Un’esperienza che non può terminare. Deve crescere e continuare.
Purtroppo sono ancora molte le persone che vivono ai margini della società. Non sono bastate le fatiche di chi si è adoperato per tentare di far uscire disabili, anziani, tossicodipendenti, migranti dall’isolamento e dai processi di esclusione. Estesi sono stati i tagli ai settori sanitario, sociale, scolastico, culturale. Numerose le forme di ingiustizia e disuguaglianza economica. Ancora troppe le guerre nel mondo.

Eppure la famosa Carta di Ottowa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1986 aveva consegnato le linee guida ai Governi del Pianeta, quando affermava che “le condizioni e le risorse per la salute sono la pace, l’abitazione, l’istruzione, il cibo, un reddito, un’economia stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l’equità”. Il virus attacca tutti, ma le conseguenze peggiori ricadono sulle persone più vulnerabili e povere. Quando la forbice tra privilegiati ed esclusi si allarga, le disuguaglianze sociali crescono e mostrano il volto peggiore della disumanità. In parrocchia sono in aumento le famiglie disagiate, che vengono in Caritas a chiedere aiuto. E la situazione tende a peggiorare. Occorre un cambio radicale di mentalità e di cultura. Non sono un politico, nemmeno un esperto nel campo economico e finanziario, ma comprendo che è tempo di invertire la rotta, abbandonare le false credenze sull’efficienza e l’autoregolamentazione dei mercati, lasciare alle spalle la logica egoistica del “prima noi”. Il sistema consumistico è all’origine di infinite distorsioni sociali e ambientali. Ha incrementato disuguaglianze e povertà. Va corretto. È un momento straordinario, aperto a grandi cambiamenti e rivolgimenti. Tocca agli uomini di buona volontà impegnarsi e vigilare per il bene dell’intera famiglia umana. Nessuno può considerarsi spettatore passivo.
Il traffico delle ambulanze insieme con il suono delle sirene è stato la colonna sonora dei mesi passati. Quando le sento si risveglia lo stesso dolore. La lotta va avanti. Il virus è un “seme”, deposto nei cuori e nelle zolle del 21° secolo. Un messaggio inquietante da ascoltare. Nulla deve essere come prima, se si vuole rinascere e operare per un mondo migliore.

don Franco Colombini