Sotto il Campanile 14 marzo 2021

Pubblicato giorno 12 marzo 2021 - Avvisi, NOTIZIARIO

 

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IV DOMENICA di QUARESIMA

14 Marzo 2021 –

Foglio n. 142 Io credo, Signore! (Gv 9, 38)

Il racconto del cieco nato mi ha posto di fronte al caso serio della fede, costringendomi a interrogarmi sulla profondità della mia accoglienza del mistero. Gesù è il Verbo di Dio, il Figlio unigenito del Padre. È la proposta più alta della rivelazione e la risposta non è scontata. La Chiesa primitiva, almeno per due o tre secoli, ha faticato ad accettare la divinità di Gesù. Tutta la problematica dell’Arianesimo – ancora viva al tempo di Sant’Ambrogio – sosteneva che era un uomo elettissimo, straordinario, ma non Dio. La Chiesa ha sofferto prima di arrivare a una dichiarazione unanime della divinità di Gesù. E forse anch’io, se fossi vissuto in quell’epoca, sarei stato incerto sulla scelta da compiere. Riconosco il coraggio di Ambrogio nel proclamare la fede nel Verbo incarnato e nell’imporre questo credo a una comunità e a un clero educati nell’Arianesimo. Ancora oggi molti vedono Gesù come un profeta illuminato, un personaggio formidabile, un innovatore nel cammino etico dell’umanità, però si arrestano davanti alla rivelazione di un Dio presente in mezzo a noi. Sembra un’utopia troppo bella, una concezione che la ragione umana stenta a comprendere: perché Dio avrebbe osato tanto, buttandosi nella mischia, per amore dell’umanità?

Il caso serio della fede continua a travagliare le coscienze. Richiede un abbandono fiducioso nel mistero d’amore del Padre, un lasciare a Dio di esprimersi nella dedizione e nell’umiltà fino alla morte di croce, caricandosi delle nostre debolezze e del peccato del mondo. Davanti al cieco nato i discepoli rivolsero a Gesù una domanda: “Di chi è la colpa? Per quale peccato è stato punito? Chi ha sbagliato: lui o i suoi genitori?” (Gv 9, 2). L’umanità, anche quella più disinibita come la nostra, fatica a scrollarsi di dosso l’idea che la disgrazia sia un castigo. “Che cosa abbiamo fatto di male per meritarci una simile pandemia? Perché questo flagello?”. Gesù non si sottrasse alla provocazione. Rispose rovesciando la prospettiva. La situazione di bisogno non è una vendetta, ma una invocazione. Le opere di Dio si manifestano nella guarigione dell’uomo. Non ci sono colpevoli da cercare e da condannare, ma persone da aiutare e salvare. Tale prodigio ha potuto aver luogo solo con la partecipazione del cieco. La fede lo ha messo in cammino verso Siloe, mentre ancora brancolava nel buio. Al contrario, gli occhi di chi rifiutarono di cogliere nella sua guarigione la manifestazione di Dio entrarono in un’oscurità sempre più fitta. I vicini di casa non si preoccuparono. I genitori non sapevano quale posizione prendere. I farisei e i capi del popolo la interpretarono come uno scandalo, perché contraddiceva la legge del sabato. Erano diventati ciechi. E se fosse così anche per noi? Molte volte mi sono posto la questione sul senso di quello che oggi ci sta capitando. Faccio fatica a comprendere. Gesù mi dice che è così, perché si “manifestino le opere di Dio” (Gv 9, 3). Sembra una sfida. Le ferite del mondo possono accendere la sete di ciò che non passa e spalancare il cuore a Colui che è venuto a portare la luce.

Il virus ha scoperchiato il velo sulla nostra comune fragilità e solitudine. L’umanità si è scoperta unita nella precarietà. Una verità profonda e troppo spesso taciuta. È un bisogno dell’anima rivolgersi a Dio e cercarlo come unico baluardo, proprio mentre le antiche sicurezze vacillano e il flusso degli eventi ci agita. Rimanere in Lui offre stabilità. Ascoltare la sua voce, che invita a non perdere la fiducia in mezzo al turbinare degli eventi, ci fa bene. Gesù è misericordia, non distrugge le sue creature, soffre vederle a terra, vuole regalarci il suo amore, che è potenza di vita. In Dio l’uomo ritrova se stesso, la verità che ha sempre cercato, la pace, la strada verso il futuro. Un’operazione spirituale di vasto respiro, epocale, che domanda tempo, umiltà, silenzio, ascolto, confronto. Un cammino da compiere. Nessuno potrà farlo al nostro posto, anche se potremo sostenerci a vicenda. La fragilità individuale si accompagna a quella globale. Nella finitezza sono emerse profonde contraddizioni, dalle quali eravamo da tempo contagiati. Abbiamo scoperto la gravità del virus dell’egoismo, che muta nel tempo, diventando sempre più aggressivo, fino a distruggere i legami della fraternità umana e costruire alte barriere di difesa ed esclusione. L’unico vero vaccino contro il male è la solidarietà. Quello, che gli scienziati ci stanno offrendo con il loro straordinario ingegno, è uno strumento. Da solo, non potrà cambiare il mondo. Ci aiuterà a sconfiggere un male, ma non il male. Povertà, disuguaglianze, ingiustizie, solitudine continueranno a essere presenti.

La prova più grande, che ci aspetta, è saper cogliere l’opportunità di questo momento e cambiare rotta. I semplici, i miti, i puri di cuori, i piccoli hanno intravisto la strada e ce la indicano. Sono quelli che vedono. Giovanni, 91 anni, ha letto sui giornali locali l’appello di Cinzia, mamma di Mattia, 22 anni, disabile. “Concedete il vaccino a noi, che dobbiamo proteggere i fragili”. La vita dei più deboli dipende in tutto da chi li assiste. Vivono in simbiosi. Giovanni in un attimo ha deciso: “Permettetemi di cederle la mia dose. È mia, posso donarla a chi ha più bisogno. Un vecchio, se vuole, si può difendere. Basta che stia a casa. Quella donna non può.”. Purtroppo il dizionario della burocrazia non conosce le voci amore e solidarietà. Ma la strada è chiara come il sole. Myanmar, città di Myitkyina, capitale del Kachin. Un paese in subbuglio per il colpo di Stato militare. Monaci buddisti sfilano per le strade con preti cattolici, vescovi, suore, seminaristi, giovani. Un fiume in piena. Le forze dell’ordine rispondono con violenza spietata, sparando sulla gente disarmata. Tra tanto odio ha stupito il mondo il gesto di un’umile suora. Durante una manifestazione si è distaccata dalla folla andando a inginocchiarsi davanti a un plotone di poliziotti in assetto d’attacco, tutta sola, in pianto.

Sollevando lo sguardo e fissando gli uomini in divisa, quasi a sfidarli, alzò le mani in segno di pace, chiedendo di non colpire e arrestare i manifestanti, perché nelle vene scorre lo stesso sangue fraterno. Una scena che ricorda l’indimenticabile giovane cinese, che affrontò disarmato i carri armati in Piazza Tiananmen, nel fatidico giugno 1989. Davide contro Golia. A mani nude. Il potere dei “senza potere”. La non violenza più forte della brutalità dei violenti. Il grido dei poveri che urla al mondo la sete di pace e di libertà. A chi sa scorgere il tutto nei frammenti della vita, appare il mistero di amore del Figlio dell’uomo, che non smette di smuovere i cuori, suscitare gesti di solidarietà e gratuità, vincere stanchezza e sconforto, allargare l’animo al mondo intero, appassionare all’avventura del bene. È il vedere della fede, lo sguardo sul futuro, la luce che viene data a noi ciechi guariti, una bella storia da portare avanti insieme. “Io credo, Signore!”.

don Franco Colombini