Sotto il Campanile 17 Dicembre 2023

Pubblicato giorno 16 dicembre 2023 - Avvisi, In home page, NOTIZIARIO

 

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VI DOMENICA DI AVVENTO
17 Dicembre 2023 – Foglio n. 241
“Ecco arriverà il tuo Salvatore” (Is 62, 11)

L’ultima domenica di Avvento nella tradizione ambrosiana viene chiamata “dell’Incarnazione o della Divina Maternità di Maria”. Quando Luca parla dell’Annunciazione racconta fatti con luoghi e persone precise, che hanno un nome e un volto. Descrive un intreccio eccezionale tra l’amore di Dio e quello di due fidanzati. Entra nella loro storia.

Maria e Giuseppe, senza rinunciare al loro sogno d’amore, ridisegnano i loro progetti. L’incarnazione di Dio
non è stata innocua e indolore. Anche oggi, quando entra nella nostra esistenza, ci provoca a rivedere tutto.
Noi crediamo in un Dio che si è compromesso nella carne dell’uomo, la fece sua, per insegnarci
con la vita il vangelo del dono di sé. Una lieta notizia per Il nostro tempo che sfrutta e commercializza il corpo sino al disprezzo. Lo pretende, ricorrendo alla forza, pur di possederlo.

Guerre,violenze, conflitti, ingiustizie, stragi seminano morte e tanto sangue innocente scorre come un
fiume in piena a inzuppare la terra. “Cur Deus homo? Perché Dio si è fatto uomo?”, si domandava San Anselmo d’Aosta in un saggio del 1098. Perché questo non avvenga più. Gesù ci ha amato fino alla morte. Si è posto al servizio della gente.

Ha aperto una nuova strada. Peccato che l’uomo non la percorre e un’umanità sconvolta e inquieta, forse anche infelice, cammina sullo stretto crinale del precipizio.
La sedia vuota di Narges Mohammadi durante la consegna del premio Nobel per la Pace a Oslo
ha reso evidente al mondo la ferocia dei regimi, che soffocano ogni anelito di libertà. Quella poltrona rappresenta milioni di donne e di uomini. Il “vuoto” delle Afghane, rinchiuse nell’apartheid teorizzato e realizzato dai talebani. Il pianto delle Israeliane, brutalizzate nell’assalto dei terroristi di Hamas e la disperazione dei loro familiari. La paura degli ostaggi. Le lacrime inconsolabili
delle Palestinesi uccise a migliaia sotto i bombardamenti israeliani nella striscia di Gaza, case
distrutte, bambini privi di cure e lasciati morire, ragazzi orfani traumatizzati. La desolazione
delle Ucraine davanti alle case rase al suolo nel gelo dell’inverno senza un perché, mentre gli
uomini muoiono al fronte e i vecchi soccombono nei rifugi. Il dramma delle Yemenite vittime di
una guerra dai contorni oscuri. E ancora: delle dissidenti Russe e Bielorusse rinchiuse dietro le
sbarre, delle ragazze stuprate a migliaia nella guerra fratricida del Tigrai o prigioniere nei campi
di raccolta in attesa di partire dalla propria terra troppa ingrata.
Ecco l’uomo! Ecco il mondo! Immagini piene di orrore, che invocano pietà. “Oggi vi è nato nella
Città di Davide un Salvatore, che è il Cristo Signore” (Lc 2, 11). Il Natale irrompe nella storia
contemporanea con una carica rivoluzionaria tutta sua, capace di sconvolgere nel bene la faccia
della terra. Marina Corradi suggerisce dalle pagine di Avvenire (7 Novembre) la strada aperta da
Gesù. Può sembrare ingenua, ma è l’unica che conduce alla pace e alla fratellanza.

L’ODIO SI ERADICA SOLO NEL CUORE
Un mese fa all’alba. Nei kibbutz oltre la Striscia i bambini dormivano ancora. Solo qualche madre
forse, sveglia, allattava l’ultimo nato. Di colpo, come un terremoto, gli spari, l’irruzione, la strage.
I padri uccisi davanti ai figli, i bambini massacrati sotto gli occhi delle madri, come nel rigurgito di
un male antico, nell’eco inesorabile di secoli di pogrom dimenticati. Oggi, un mese dopo, Gaza
in macerie, la popolazione stremata e in fuga, migliaia di morti. L’esercito israeliano percorre ciò
che resta di Gaza nord con i tank e i bulldozer, per distruggere le uscite dei tunnel. Sembra una
caccia ai topi. Ci sono anche duecento ostaggi israeliani là sotto, se sono ancora vivi, e ci sono
quelli di Hamas, imbevuti di odio, e tuttavia uomini. Gli esplosivi a murare i cunicoli – così come si
eliminano i topi. Su un tank, racconta sul “Sunday Times” un giornalista embedded con l’esercito
israeliano, c’è un tenente medico. Una donna. Yonat ha due figli piccoli, ed è stata tra i primi, la
mattina del 7 ottobre, ad arrivare al kibbutz di Kfar Aza. Le è indimenticabile una mamma crivellata
per strada, colta dai terroristi mentre fuggiva col suo bambino fra le braccia. Il tenente Yonat dice
che per lei questa guerra è “diversa”. Quasi tutti gli ebrei israeliani discendono da perseguitati,
fuggiti nell’unico Paese in cui non sarebbero più stati gli “altri”, quelli dei ghetti. La paura che
quest’enclave sia cancellata, l’ansia di vendetta per quella notte atroce – tutto questo ci pare
terribilmente umano. Hamas, spiega Yonat, deve essere eliminato una volta per tutte: perché suo
figlio, quattro anni, non debba più tornare a combattere. Eliminare una volta per tutte, “eradicare”
Hamas, promette Israele, procedendo a spianare Gaza Nord senza guardare ai civili, agli innocenti. Con la rabbia di chi ha visto i suoi bambini bruciati. Soldato, madre ed ebrea, quell’ufficiale sui tank ha visto se stessa, nella mamma con un neonato a terra nel sangue, il 7 ottobre. (Se provo a immedesimarmi, io riesco a capire l’odio. Siamo esseri umani, il sangue dei figli ci è intollerabile).

Ma, “eradicare” Hamas. Necessario, urgente che la radice di male assoluto venga strappata,
divelta. Perché Yonat non tollera che suo figlio torni a fare la guerra. E tuttavia guardando il fumo
nero sopra Gaza annientata, e le facce dei profughi, dei medici impotenti davanti ai mutilati, ti si
para davanti una evidenza: quei ragazzi, quei bambini palestinesi che hanno visto i padri e i fratelli
cadere sotto ai colpi israeliani, non dimenticheranno. Non si chiamerà forse più Hamas il nemico, fra vent’anni. Ma chi c’era non dimenticherà. A quei bambini è stato messo dentro come un seme: molti ricominceranno a odiare. Magari in silenzio, senza prendere le armi, oppure di nuovo organizzandosi, clandestini, sotto a un diverso nome. Raramente, però, chi ha visto ammazzare
suo padre o sua madre dimentica. E ancora più difficilmente perdona. La giovane madre sui tank
a Gaza pare allora una pedina dentro una ruota che gira inesorabilmente, e polverizza gli uomini
come la macina di un mulino il grano. Eradicare? Non credevamo nel ’45 di avere eradicato il
nazismo? E non lo vediamo, forse, tornare? Nessun bombardamento, nessun tunnel di nemici murato “eradica” la memoria e il rancore. L’audace rivoluzione annunciata da Cristo in quella stessa insanguinata terra si chiama perdono – ma già noi cristiani, a dire il vero, non brilliamo nel crederci e praticarlo. Impronunciabile, quasi indecente oggi fra Israele e Gaza, questa parola. Eppure al tenente e madre Yonat, ferita a morte nel vedere una ebrea come lei uccisa con il suo bambino fra le braccia, si vorrebbe poter dire: capiamo la immensa, ereditata paura, e la rabbia, ma nessun tank, nessun bulldozer, cancellerà il principio dell’odio. C’è un solo luogo in cui il corso di questa ruota inesorabile possa invertirsi, ed è il cuore dell’uomo. Si potrebbe almeno cominciare ad avere pietà.
A sfamare, a curare i feriti, a ridare una casa agli orfani. Se ricorderanno, quei figli, di avere visto fra i nemici almeno una faccia buona, forse anche in quel benedetto, stremato angolo di mondo si potrà un giorno sperare di tornare a vivere.
don Franco Colombini