Sotto il Campanile 17 Marzo 2024

Pubblicato giorno 13 marzo 2024 - Avvisi, In home page, in primo piano, NOTIZIARIO

 

 

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V DOMENICA DI QUARESIMA
17 Marzo 2024 – Foglio n. 254
“Io sono la resurrezione e la vita” (Gv 11, 25)
“Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, così affermava Ludwig Wittgenstein, un famoso filosofo contemporaneo. Eppure le parole di Gesù, rivolte alle sorelle di Lazzaro, sono inequivocabili: “Io sono la re- surrezione e la vita (Gv 11, 25).

Sono il Risorto. Sono la tua risurrezione. Conosco ciò che ti affligge, ti inquieta, ti turba. Ho davanti agli occhi le paure, che ti porti dentro, il pianto, il desiderio di essere perdonato e riscattato dal male. Affidati a me. Lasciati andare al vento dello Spirito e rinascerai come un germoglio a primavera”. Molti credenti faticano ad accettare questa verità ultima. Hetty Hillesum scriveva nell’inferno di Auschwitz che, proprio stando lì, poteva “contribuire a disseppellire Dio dai cuori devastati dagli uomini”. Ogni gesto d’amore è un indice puntato verso Gesù, da dove si sprigiona dirompente la sua resurrezione e la forza della vita.
Qualche settimana fa Suor Nelly, una religiosa di 65 anni, ha ricevuto ad Abu Dhabi il premio Zayed per la Fratellanza Umana. Fin da bambina aveva conosciuto la povertà materiale e la ricchezza degli affetti, accanto ai genitori e a sette fratelli, scarsi di soldi ma abbondanti di amore. A quell’età sognava il matrimonio e dei figli. Oggi i suoi figli o, meglio, le sue figlie sono le detenute del Penitenziario femminile di Santiago. Donne che hanno sbagliato, sono precipitate in fondo al baratro e a cui lei tende la corda per tornare a galla. Non sa più che cosa inventare per accompagnarle verso la libertà. Ha aperto una casa di accoglienza, ha dato vita ad una Fondazione, chiamata “Mujer, Levantate” (Donna, alzati), che dà assistenza a circa 250 donne ogni anno. Arrivano che sono cocci spezzati e lei, aiutata dalla paziente bontà dei volontari, cerca di rimetterli insieme.

La chiamano mamma, come le detenute di Milano chiamavano Suor Enrichetta Alfieri “la mamma di San Vittore”. Sono un segno del Risorto, che opera in umiltà, nel silenzio, nel nascondimento, nelle pieghe più recondite del mondo, dietro le sbarre, per portare
fiducia e restituire la vita coloro che l’hanno perduta.
Nella Festa del papà mi torna alla mente un bellissimo ricordo di una gita a Venezia, fine anni 60, che feci con la mamma e il papà, prima di entrare in seminario.
Era un giorno di aprile. Pioveva. Sul vaporetto tenevo gli occhi sbarrati senza mai staccarli dal Canal Grande e da quella incredibile città sull’acqua. Il papà mi indicava i luoghi più belli con l’entusiasmo di un bambino e mi diceva: “Guarda S. Marco, il palazzo del Doge, i colori delle case, il riflesso verde della laguna, …”.

Risento ancora la sua voce vicino al dolce sorriso della mamma, l’immagine della tenerezza. Quel giorno mi hanno fatto vedere la bellezza, che avvince e innamora alla vita, mentre il Signore Risorto mi indicava la strada da seguire.
Un altro papà, Gino Cecchettin, ha pronunciato parole pacate e intense ai funerali della figlia stroncata da una mano omicida. Ce le ha raccontate Massimo Calvi dalle pagine di Avvenire del 6 dicembre scorso. Nessuna violenza potrà negare l’inviolabile bellezza di Giulia. Il suo – come quello delle tante donne uccise e vittime innocenti – non è un corpo dissacrato, ma una emanazione di luce, un seme che fiorirà in vita, come la morte del Cristo Risorto.
GRAZIE A NOME DI TUTTI I PADRI
I funerali di Giulia Cecchettin, celebrati dal vescovo di Padova Claudio Cipolla nella Basilica di Santa Giustina, hanno restituito un’immagine che faticheremo a dimenticare, dopo giorni di dolore e di rabbia, di angoscia e di parole necessarie, di confronti e anche di tensioni: è la figura di un padre. La dignità e la compostezza con cui Gino, il papà della giovane uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta, è intervenuto al termine della Messa, ma soprattutto le parole che ha scelto nascondendo a fatica l’emozione per la “tempesta terribile” che lo ha investito, hanno avuto la forza di aiutarci ad accantonare per il tempo che è giusto gli strascichi dei dibattiti su patriarcato e narcisismo, le paure che si sono fatte largo nei cuori dei genitori di tanti ragazzi e ragazze che stanno scoprendo giorno dopo giorno che cos’è veramente l’amore, come anche le pretese di giudicare la realtà dal piedistallo della propria esperienza.
È emerso un padre, e ne avevamo bisogno. Perché tutti abbiamo vacillato, ci siamo ricordati improvvisamente delle imperfezioni nella fatica di ricoprire questo ruolo, nel grande vuoto che la lenta dissoluzione degli antichi modelli ha lasciato. E che oggi rende difficile capire se si sta facendo la cosa giusta, oppure no.

Nei pochi minuti in cui ha parlato, Gino Cecchettin non è stato più soltanto il papà di Giulia, la sua guerriera greca, è diventato  semplicemente, il padre che si deve essere. Ha detto che educare è aiutare i figli a riconoscere il sacrificio, l’impegno, l’accettazione della sconfitta, è insegnare a guardare negli occhi degli altri, ad ascoltare, a comunicare realmente con empatia e rispetto. Eppure, forse, non è in queste semplici e verissime parole pronunciate con la voce che a tratti si interrompeva per l’emozione, che
sta la forza del messaggio che è importante ricordare. Gino Cecchettin è diventato il padre che fatichiamo a essere, quando nel suo discorso ha distribuito le responsabilità chiamando tutti, la famiglia, la scuola, la società civile, il mondo dell’informazione, a sentirsi impegnati e coinvolti per essere agenti del cambiamento. Perché molto probabilmente lo scenario con cui stiamo facendo i conti, più della dissoluzione o della crisi della figura paterna all’interno delle mura di casa, è la deresponsabilizza- zione rispetto alla figura genitoriale che dovrebbe essere prerogativa di una intera comunità.

I padri ci sono ancora, ma troppo spesso sono soli, perché il villaggio là fuori ha abdicato, rinunciando a essere la guida che indica come procedere in salita, delimita i confini, mostra la ferita del sacrificio, insegna a vivere. Lontano, defilati, consumati da un dolore differente, due altri genitori in questi giorni hanno trovato il
modo e la forza di non abbandonare un ragazzo che è pur sempre figlio, Filippo Turetta, e che ora dovrà scontare la sua pena. È un percorso complesso, quello della pacificazione. L’omelia del vescovo di Padova ha invocato il Signore chiedendo di insegnarci proprio questo, la pace tra i generi, la pace tra le generazioni, la pace per i cuori tutti. Tutti. Il senso del limite e della fragilità è quanto ci restituisce questa straziante vicenda, insieme al desiderio forte che sia realmente lo spunto per cambiare.
Nessuno è al riparo dagli errori e dai fallimenti nella crescita dei figli, consapevoli di quante volte, sperando di fare bene, sbagliamo. Sembra facile, a parole: volersi bene e mostrarlo ai figli, essere presenti, saper dire no quando serve, insegnare a camminare, lasciare andare. Poi le cose succedono, perché il male esiste e però si spera che non entri mai in casa nostra. Soprattutto si prega perché non accada, e lo fa ogni genitore: è nella natura dell’essere madre o padre, anche se non si è credenti. Sapere, cioè, che stiamo provando a fare tutto il possibile, ma alla fine ci troveremo sempre a dover chiedere perdono, a perdonare, a ringraziare.

Mentre il padre di Giulia camminava verso la chiesa per i funerali, nella piazza si è udito un grido, commosso: “Grazie a nome di tutti i padri”.

Proviamo a ripartire anche da qui.
don Franco Colombini