scarica ==> sotto il campanile 19 Marzo 2023
IV Domenica di Quaresima 19 Marzo 2023
– Foglio n. 217
Festa dei papà
Un giorno Gesù, passando, incontrò un uomo cieco dalla nascita presso la piscina di Siloe, dove i poveri solevano raccogliersi a supplicare un pezzo di pane. Non aveva mai visto la luce del sole, i colori, un tramonto, un amico, un sorriso. Gesù si fermò senza pregiudizi, con uno sguardo che andava al cuore e si intrecciava con i desideri più profondi dell’animo. Nacquero incomprensioni e divergenze con i suoi discepoli, la gente del posto, i capi del popolo. C’era chi lo voleva ignorare, come se non esistesse; chi faceva di tutto per evitarlo, perché pesante da sopportare; chi lo giudicava, fino a farne un caso curioso di teologia morale.
In quel momento i pensieri di Dio si scontravano con quelli degli uomini. Gesù provò una infinita compassione. Un fremito irresistibile gli scatenò l’istinto divino di donargli la luce. Sentì di volergli bene. Lo guarì, riempiendogli gli occhi di stupore e gioia profonda. Il cieco vide l’Invisibile, quello che gli altri si ostinavano a non vedere e credette. “Io credo, Signore! E gli si prostrò dinanzi” (Gv 9, 38). “Ciò che salva è lo sguardo”, diceva Simone Weil. Dio contempla in ogni creatura i tratti della sua bellezza divina, che rimane intatta pur nella fragilità, nella debolezza, persino nella sporcizia dell’esistenza, come lo splendore di un diamante.
Qualche anno fa trascorsi alcune settimane in una missione del Kenya. Partii all’avventura, sapendo solo il nome del villaggio. All’arrivo mi trovai in un ospedale in mezzo alla savana con un ricovero per disabili, rifiutati dalle famiglie. Ogni mattina mi alzavo alle cinque. Dopo la Messa e la preghiera, andavo da loro per lavarli, vestirli, imboccarli, portali a passeggio tra le piante di papaia, i bananeti, le capanne del villaggio, lungo il fiume, sotto i rami dei baobab. Altre volte passavo le giornate in ospedale ad aiutare i medici. Imparai a leggere nel sangue i segni della malaria. Una notte fui svegliato d’urgenza, mancavano gli infermieri e una donna stava per partorire in preda a forti dolori. Per la prima volta assistetti alla nascita di un bambino. Il miracolo della vita. Presto la routine quotidiana non mi bastò più. Mi sembrava di fare poco. Fui preso dallo sconforto e dall’insoddisfazione. Una domenica con alcuni amici mi allontanai per una scampagnata nelle ampie radure dell’Africa. Al rientro avevo nel cuore un entusiasmo nuovo, come se stessi tornando a casa. Anzi, morivo dalla voglia di arrivarci. Appena varcato il cancello, gli ospiti mi vennero incontro festosi, impazienti per non avermi visto tutta la giornata. Quella sera, sotto il cielo stellato come non mai, compresi che non c’è bisogno di tante cose e di parlare la stessa lingua per capirsi. Basta l’amore. Lo sguardo puro e festoso dei ragazzi mi aveva conquistato. Nei loro volti scorsi la bontà di Dio, vidi il suo sorriso e mi lasciai andare tra le sue braccia.
Mattia è uno dei tanti detenuti iscritti all’Università. Dopo il diploma triennale decise di partecipare a un master alla Bocconi per costruire un futuro diverso dal passato. Gli errori e la condanna continuavano a pesare, ma non furono più un freno alla sua voglia di cambiare passo. Il carcere è una parentesi, un tempo sospeso. Molti lo vivono sciupandolo, sdraiati sul letto, incollati al televisore, allenandosi in palestra, giocando sui campi di calcio, preoccupati di mantenere il fisico in forma smagliante. Per Mattia non fu così. Scelse la via dello studio come strada del proprio riscatto sociale. La vita non può aspettare tempi migliori. La vita è adesso. Ripartire, rimettersi in piedi dopo una caduta, rinascere da una malattia o dal buco nero di una dipendenza, ricostruirsi una nuova esistenza dopo un fallimento o un faticoso percorso migratorio, è difficile, quasi impossibile. Lo sguardo buono di chi è vicino dona la fiducia e la forza di spostare le montagne.
Arjan Dodaj aveva sedici anni quando lasciò l’Albania per l’Italia. Un sogno e una storia come quella di tanti: la fuga in motoscafo con altri giovani, l’arrivo in Puglia, la prima notte in un casolare diroccato, le parole degli organizzatori: “Camminate e seguite i binari del treno”, dalla stazione di Bari il viaggio verso Cuneo, i primi lavori come giardiniere e saldatore. Nella comunità, che lo aveva accolto, conobbe il volto amico della Chiesa. Si convertì. Ricevette il Battesimo. Lo sguardo di Gesù lo affascinò fino a decidersi per lui. Entrò in seminario a Roma e nel 2003 fu ordinato sacerdote dal Papa San Giovanni Paolo II. La Provvidenza aveva previsto quello che nessuno aveva mai osato immaginare. Lo rimandò nella terra, dalla quale era fuggito, prima come sacerdote e dal 2021 – ventinove anni dopo quel viaggio avventuroso nel mare Adriatico – come arcivescovo di Tirana-Durazzo. I migranti sono persone, volti, destini, speranze, tragedie, fratelli, sorelle, amici. La mano di Dio guida le loro storie e costruisce cammini imprevedibili, ricchi di significato e di Mistero. Un sedicenne, fuggito dall’Albania, è diventato seminatore del Vangelo e padre della diocesi più grande di un Paese, dove ogni fede era stata bandita dal potere. Quel lontano giorno il Signore lo stava aspettando sul molo del porto e lo chiamava, “perché in lui si manifestassero le opere di Dio” (Gv 9, 3). Proprio come fece con il cieco nato.
Don Franco Colombini