SCARICA ==> sotto il campanile 21 Gennaio 2024
III DOMENICA DOPO L’EPIFANIA
21 Gennaio 2024 – Foglio n. 246
“Spezzò i pani e li diede ai discepoli” (14, 19)
Gesù con due pani e due pesci dette da mangiare a una folla sterminata, che lo seguiva da più giorni in una zona deserta.
Fu un segno strepitoso. Manifestò una sovrabbondanza di amore, al di là di ogni previsione, tanto che “tutti mangiarono a sazietà e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene” (Mt 14, 20).
Mi viene spontaneo ricordare le parole di Gesù la notte del tradimento durante l’Ultima Cena: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”, un dono unico che solo l’infinita compassione del cuore di Dio poteva immaginare, facendosi carne della nostra carne, pane buono che sfama ogni attesa.
Tutti i giorni possiamo incontrare il Signore nell’Eucaristia e la fede nella presenza reale ci pone in ginocchio, per prolungare l’ascolto, la lode, la supplica, lo stupore, l’affetto. “Contemplare Gesù, restare davanti a Lui, adorarlo nell’Eucaristia non è perdere tempo, ma dare senso al tempo. È ritrovare la rotta della vita nella semplicità di un silenzio che nutre il cuore” (Papa Francesco, 6 gennaio 2024). È quello che siamo invitati a fare in questi giorni delle Sante Quarantore in Parrocchia.
Diversi Santi e Beati fecero dell’adorazione il punto centrale della propria fede.
Un bell’esempio ci viene da una figura giovane, il Beato Carlo Acutis, un adolescente di 15 anni. Egli ci consegna il segreto della sua santità, quando affermò: “Essere sempre unito a Gesù, ecco il mio programma di vita; l’Eucaristia è la mia autostrada per cielo”.
E San Charles de Foucauld trasse dall’Eucaristia un amore infinito per ogni uomo e donna, tanto da diventare il “piccolo fratello universale” con una preferenza per i poveri, gli ultimi, i dimenticati, gli scartati. “La tua felicità, Gesù, mi basta!”, diceva in preghiera davanti all’Eucaristia in un piccolo eremo nel vasto deserto del Sahara tra i Tuareg. Giovanni Maria Vianney, il Santo curato d’Ars, racconta di un contadino che ogni giorno passava un lungo periodo di tempo seduto all’ultimo banco della chiesa davanti al tabernacolo. Alla sua curiosità il contadino rispose: “Nulla, Signor Parroco, io guardo Lui e Lui guarda me”.
Ecco l’adorazione. È l’incrociarsi di due sguardi che si cercano e si amano. Il cuore, perso in Dio, ci aiuta a vedere ciò che sfugge agli occhi, ci stimola a trascendere le visioni semplicistiche e frammentate della vita, ci prepara a gestire la complessità senza temerla, ci sprona a lasciar perdere la rigidità che giudica, etichetta, condanna dichiara qualcuno incurabile e perduto, anziché accoglierlo, ascoltarlo in profondità, salvarlo. Davanti a Gesù il visibile e l’invisibile si fondono, la sonorità della parola si mescola alla musica del silenzio, ciò che appare vuoto si riempie di una presenza amica, la fragilità diventa una leva, la sofferenza una forza, i drammi della storia ritrovano la speranza del cambiamento e nelle stagioni spente del nostro viaggio si riaccende il calore di un fuoco inestinguibile. Inginocchiati in preghiera, il cuore si sbalordisce dello smisurato spettacolo della vita sempre nuovo e magnifico, attraverso cui vedere le sofferenze dei popoli, spesso smarriti e in subbuglio. Ci si sente parte di un grande affresco collettivo di pace e di amore, che manca in molte parti del mondo, e invece oggi è più necessario che mai, per aprire un varco nel muro della violenza, come scrive Giorgio Paolucci su Avvenire il 6 Gennaio di quest’anno.
IL VARCO NEL MURO DELLA VIOLENZA
C’è qualcosa che permette di resistere e continuare a sperare nell’inferno della guerra?
C’è qualcosa a cui guardare per non soccombere al dolore? C’è Qualcuno. C’è Uno. Uno che ha offerto la vita in sacrificio per gli uomini, per tutti gli uomini.
In questi giorni a Gaza, nella parrocchia latina della Sacra Famiglia, i fedeli, impastando la poca farina rimasta a disposizione, fabbricano le ostie destinate alla celebrazione eucaristica. Persone segnate dalla sofferenza preparano le particole che diventano Corpo di Cristo, sacramento di salvezza e di riconciliazione. Quello di Gaza, guidato dal parroco Padre Gabriele Romanelli, è uno dei “laboratori eucaristici” promossi dalla Casa dello Spirito e delle Arti, la fondazione presieduta da Arnaldo Mondadori che in tante parti del mondo ha avviato la produzione delle ostie con il progetto “Il senso del pane”.
L’esistenza di chi opera in questi laboratori porta impressi nella carne i segni della fragilità: a Buenos Aires sono giovani usciti dalla tossicodipendenza, in Etiopia ex ragazzi di strada, in Sri Lanka donne vedove e ragazze in condizioni di povertà estrema, a Betlemme e Pompei persone con disabilità fisica e psichica. A Milano, nel carcere di Opera, ho conosciuto detenuti condannati per gravi reati che si cimentano in questo lavoro: mani che hanno ucciso, mani sporche di sangue fabbricano le particole destinate a diventare il Corpo di Colui che ha versato il proprio sangue per redimere le colpe di chi ha sbagliato.
È qualcosa di misterioso e di vertiginoso, che trova significato nella fede e racconta la grandezza del sacrificio eucaristico. Un sacrificio che è segno di salvezza e di riconciliazione, quella riconciliazione tra i popoli che oggi nella Terra Santa appare così lontana
da essere considerata irraggiungibile, che però è l’unica autentica promessa perché la fine dei combattimenti non sia una parentesi illusoria, ma diventi preludio di una nuova stagione all’insegna della pace.
È un paradosso della storia e insieme un segno profetico che proprio dai cristiani, minoranza esigua in quelle terre, venga un messaggio di speranza per tutte le genti che la abitano. E quel piccolo laboratorio, che a Gaza produce le ostie, mentre nella Striscia risuonano rumori di morte, è una fiammella che si accende nel buio della guerra per dire al mondo che il male non è l’ultima parola sull’esistenza, perché c’è Uno che l’ha sconfitto.
È la testimonianza muta e potente che nessuna avversità può impedire alla Misericordia Divina di abbracciare la fragilità umana, di aprire un varco nel muro della violenza e di penetrare nel cuore degli uomini. Anzi, è proprio la fragilità che diventa il veicolo attraverso il quale la Misericordia ci raggiunge.
Come è accaduto nella notte di Betlemme, quando un Bambino è venuto tra noi per farci conoscere un amore senza limiti e senza condizioni, l’amore di Dio. Come recita un brano del cantautore americano Leonard Cohen: “Suona le campane che ancora possono suonare. Dimentica la tua offerta perfetta. C’è una crepa in ogni cosa: è così che entra la luce”.
don Franco Colombini