Sotto il Campanile 23 Dicembre

Pubblicato giorno 22 dicembre 2018 - NOTIZIARIO

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VI Domenica di Avvento 23 Dicembre 2018 – Foglio n. 53

Troverete un bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia (Lc 2, 12)

Il nostro tempo ha spazzato via la bellezza sconvolgente del Natale. La stalla di Betlemme, circondata di mistero, e il campo dei pastori, irradiato di splendore celeste, non si adattano più al paesaggio spirituale dell’era moderna. L’incantesimo della Notte Santa si è dissolto in slitte, renne, uomini vestititi di rosso, pranzi, viaggi, regali. Racconti leggendari, come quello secondo cui in quella notte tutte le cose furono meravigliosamente trasfigurate, non ci commuovono più. La nascita di Gesù non smuove l’indifferenza dei cuori, che rimangono freddi. L’uomo d’oggi si è troppo evoluto e ha cancellato dalla sua memoria storica una “fiaba” vera, la più bella mai raccontata, che annuncia una nuova era di pace, “quando il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme” (Is 11, 6),

“perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio” (Is 9, 5).

Ricordo la mia gioia di fanciullo, quando preparavo il presepe. Mentre costruivo la grotta, disponevo le luci, creavo le montagne e i deserti, collocavo le statuine, mi appariva “la gloria di Dio”.

Lo credevo profondamente: un uomo, che viene al mondo come debole bambino, figlio di povera gente, per la quale non c’è stato posto nell’albergo. Umiltà e indigenza circondavano la sua nascita. Guardandolo, mi batteva il cuore, come ai pastori quando videro il segno:

“Troverete un bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia” (Lc 2, 12). Non un mito, un eroe, una figura leggendaria, un semidio, ma un “avvenimento”, un evento storico, la verità più bella per la mia vita. La nascita nella mangiatoia è la testimonianza dell’agire paradossale e inafferrabile di Dio, il quale – con il dono di suo Figlio – volle compiere per noi, nella povertà dell’esistenza e nella fugacità della storia, la sua più alta impresa di amore.

Quando alla sera, nel buio della casa, illuminata dai lumi del presepe, mi fermavo in preghiera a guardare, la sua voce mi parlava, entrava nella mia carne, mi prendeva. Non c’era nulla di più dolce. Seguirlo mi è stato facile. Avevo una attenzione particolare per i pastori. Mi facevano tenerezza.

Li immaginavo in mezzo al gregge – come spesso mi era capitato di vederli d’inverno nella campagna – , con l’occhio vigile, attenti ad ogni movimento, pronti a intervenire. Trattavano le pecore con dolcezza come fossero persone di famiglia. Aiutavano gli agnellini più deboli a sostenersi sulle gambe ancora fragili e li coccolavano tenendoli tra le braccia. Dormivano all’aperto per proteggerli dalle insidie della notte. Ignoravo che nella Palestina di allora i pastori non erano tenuti in grande stima, anzi il loro era considerato un mestiere impuro.

Appartenevano a quella categoria di gente che “non conosceva la legge” e non poteva osservarla nel suo rigore farisaico. Ma proprio a questi uomini disprezzati fu rivolta la lieta notizia, il vangelo della misericordia di Dio. Per primi vennero a conoscere che era nato il Messia. Il Bambino nella sua povertà e miseria non costituì nessuno scandalo, fu un segno di Colui che più tardi dirà: “Dio mi ha mandato ad annunciare ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4, 18).

Mi affascinavano la luce e il canto degli angeli che svelava il mistero: cielo e terra sono riconciliati, Dio dona agli uomini la pace e la sua salvezza, perché li ama. Ora è qui, è uno di noi, è venuto. La storia della salvezza è iniziata. Avevo una gran voglia di percorrere le strade del mondo e gridarlo a tutti con la mia vita fatta amore. Desideravo raggiungere i più poveri, gli ultimi, gli scarti sociali, dimenticati e disprezzati, per essere accanto a loro come un amico, un padre, un fratello, un servo. Bruciavo di gioia e di impazienza, proprio come i pastori, che “tornarono, lodando e glorificando Dio per tutto quello che avevano udito e visto” (Lc 2, 20).

Nei giorni del Natale non posso dimenticare le ultime cinque vittime del terrorismo, tra le quali il giovane italiano di 29 anni, Antonio Megalizzi, giornalista radiofonico trentino, membro di una community internazionale di giovani talenti, desideroso di coltivare la professione senza frontiere, che ora molti in Europa e nel mondo vorrebbero far rinascere. Un colpo di pistola, esploso l’11 dicembre ai mercatini natalizi di Strasburgo da un coetaneo, Chérif Chekant, gli ha tolto la vita. Era arrivato in quella città ventiquattro ore prima per raccontare la seduta plenaria di quell’Europa, che aveva cominciato ad essergli familiare. Se non fosse stato colpito, avrebbe potuto commentare in diretta il voto, con il quale l’Assemblea tornava a chiedere la verità su Giulio Regeni, un altro giovane italiano, quasi conterraneo, anch’egli appassionato di giornalismo, ucciso barbaramente al Cairo nel gennaio 2016.

Antonio era appassionato al suo lavoro. Ha saputo toccare tanti cuori e varcare confini impensati. È stato motore di relazioni e testimonianza della bellezza della vita. Dopo il gesto, che ha seminato il terrore, è alto il rischio che il radicalismo religioso faccia esplodere nuove inimicizie, chiusure, pericolosi conflitti, caccia al diverso di pelle e di fede, riportando indietro l’orologio della storia. A questo Antonio si sarebbe opposto con tutte le sue forze. Avrebbe alzato forte la voce di libero cittadino contro i seminatori di discordie per ribadire che l’Europa deve garantire la pace e la tolleranza, la convivenza e la fraternità.

È questa la bella storia che va continuata, come invita il canto degli angeli a Betlemme nella Notte Santa: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini, che egli ama” (Lc 2, 14). Ascoltandolo, gli uomini e le donne di buona volontà si riscuotono e si mettono in cammino.

Buon Natale!

don Franco Colombini