scarica ==> sotto il campanile 24 Gennaio 2021
III DOPO L’EPIFANIA 24 Gennaio 2021 –
Foglio n. 135
Tutti mangiarono e furono saziati (Mt 14, 20)
Al centro di questa domenica c’è una nuova manifestazione del Signore: la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Dopo la tragica notizia della morte di Giovanni il Battista, Gesù avvertì l’esigenza di ritirarsi in un luogo deserto, “ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalla città”. Egli, sceso dalla barca, le vide e “sentì compassione”. Non si innervosì per essere stato disturbato. Non fuggì. “Guarì i loro malati” (Mt 14, 13-14). Staccarsi ogni tanto dalla quotidianità, fa bene. Aiuta a perdere la patina del grigiore e dell’abitudine, che appiattisce le cose e sfuma le situazioni. Nel cuore contemplativo nasce l’attenzione, la capacità di guardare come Gesù, di commuoversi. Ci si accorge delle persone, le apprezziamo, ci chiediamo come aiutarle. Non possiamo farne a meno. È più forte di noi. Siamo partecipi delle speranze e dei dolori. Diventiamo capaci di stupore, di meraviglia, di compassione, come i bambini, che trovano belli i colori, i piccoli gesti, i giochi. Vivono ogni momento con la gioia e l’entusiasmo della prima volta. “Non occorre che vadano. Voi stessi date loro da mangiare” (Mt 14, 16).
È tardi, fa buio, ma nessuno deve allontanarsi. Sta per succedere qualcosa di grande, mai visto prima. Gesù ci conosce nel profondo. Non gli sfuggono le nostre vere necessità. Sa ciò di cui abbiamo bisogno. Per chi crede all’Amore, non è mai notte. L’umanità è una massa sterminata, che nelle sue moltitudini ha fame e sete di amore, di verità, di giustizia, di libertà, di pace. Sono uomini e donne, popoli e nazioni. Gesù non parte dal nulla per dare risposte. Non disprezza ciò che abbiamo. Ci chiede di portargli il nostro poco. Quel poco, che è pochissimo, ma non è niente. Le cose, il tempo, le risorse, le doti, la fragilità, persino i peccati, gli sbagli. E sfamerà l’umanità intera. È questo il vero miracolo dei pani e dei pesci. Ci invita a fidarci, a credere alla sua potenza. Un giorno l’ha chiesto anche a me, quando mi trovavo sull’altare della nostra chiesa.
Era il 14 settembre 1997, la domenica del mio ingresso come parroco. Ci fu chi, vedendomi per la prima volta, pensò a questo brano evangelico e me lo disse: “Don Franco, mi sembravi smarrito di fronte a tanta gente, quasi dicessi: dove troverò il pane per dar da mangiare a tutti?”. Gesù domanda anche oggi i pochi pani e pesci della nostra bisaccia, perché vuole farsi un popolo, una famiglia. Nutrirla. “Dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i due pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli alla folla” (Mt, 14, 19). Dividere, distribuire, partecipare, condividere. Un gesto lento, solenne, sacro. Gesù parla con la vita. Annuncia il mistero del suo corpo spezzato. Manifesta la decisa volontà di sacrificarsi per la moltitudine. Apre la strada al dono di sé fino alla morte. Insegna a farsi prossimo ad ogni uomo e donna. “Gesù ci ha lasciato un Pane nel quale c’è Lui, vivo e vero, con tutto il sapore del suo amore”. Rimango incantato a contemplare il pane sbriciolarsi nelle mani di Gesù! Vedo Dio. Vedo l’uomo. Vedo me. Vedo la Chiesa, il mondo, la storia.
Risento le parole dette a Pietro sul lago di Tiberiade: “Pasci le mie pecore”, abbine cura, nessuna deve andare perduta. Sono scritte nella mia carne, mi bruciano l’animo, tracciano un destino. Dall’insorgere dell’emergenza non è mai venuto meno l’impegno caritativo accanto al grande mare degli esclusi, al popolo crescente dei poveri, delle persone sole, senza nome, anziani, disabili, famiglie, profughi. Una presenza capillare vasta e discreta. Un attivismo senza ricerca di gloria. Uno stile inconfondibile. Un umanesimo concreto e fraterno Una trama di iniziative, che ha mostrato un volto di Chiesa familiare, generoso, disinteressato, solidale, eucaristico. Ben oltre il frastuono della cacofonia politica, la comunità dei credenti si è fatta anima della società. Samaritani che si sono fermati. Cittadini vivi, consapevoli, partecipi, capaci di ascoltare, vedere, agire, risolvere, prendersi cura, farsi carico, mettersi al servizio, con una preferenza per i posti che restano liberi, perché nessuno li vuole occupare. In loro ho visto il Vangelo tutto intero. Ho ammirato la presenza viva di Gesù, il Figlio di Dio, che con il pane dell’amore non smette di sfamare le solitudini e le sofferenze dei poveri. Hanno incarnato la parola di Gesù: “Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina, perché tutta si fermenti” (Mt 13, 33).
È stata per me una forte emozione sapere della missione in Africa di un amico a me molto caro, il dottor Enrico Davoli, medico chirurgo. Ci siamo conosciuti giovanissimi a Torino, al Cottolengo, dove passavamo le nostre vacanze come volontari. Io con gli ammalati terminali del Reparto San Rocco, lui con i “barboni”. Da allora un legame più che fraterno ci tiene uniti. Un gigante buono con il mondo nel cuore. Il viaggio di nozze lo fece nella foresta tropicale del Camerun, operando i malati a tre ore di jeep dal primo centro medico. Poi vennero l’Afghanistan, dove mutilava i bambini saltati sulle mine antiuomo, il Brasile, il Guatemala, il Kosovo in guerra, la Macedonia, il Turkmenistan, l’Uzbekistan, l’Uganda con la terribile esperienza dei bambini soldato, … . Adesso è in Tanzania con il figlio Cairo per dedicarsi al monastero benedettino di Mvimwa. Ottanta giovani monaci – vera espressione dell’Ora et labora declinato in forma moderna – hanno messo in piedi un motore di sviluppo in piena savana con scuole, laboratori di alta tecnologia, un centro sanitario efficiente, che non punta al minimo indispensabile ma all’eccellenza. “I miei maestri sono stati il medico missionario Albert Schweitzer e il Padre comboniano Giuseppe Ambrosoli, grande chirurgo morto nel 1987 in Uganda, sfinito dalle sofferenze patite assistendo la popolazione durante la guerra civile. Per loro ho scelto la chirurgia e l’Africa: di tutto il mondo, è il luogo dove mi sento felice, dove trovo la purezza nei rapporti umani, dove nonostante la povertà la sera la gente ha sempre un motivo per ballare e i piccoli si divertono anche con un pallone di carta”. Un uomo felice di spendere la vita, in silenzio, tra la gente umile, che ricompensa con il più bel sorriso stampato sul volto, l’unica ricchezza che possiede. In questa terra lontana Gesù, pane di vita, è presente, cura e guarisce i malati. La sua storia continua in ogni contrada del mondo, dove c’è un uomo che ama.
don Franco Colombini