Sotto il Campanile 24 Marzo 2024 domenica delle Palme

Pubblicato giorno 20 marzo 2024 - Avvisi, In home page, NOTIZIARIO

 

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DOMENICA DELLE PALME
24 Marzo 2024 – Foglio n. 255
“Come pecora muta di fronte ai suoi tosatori non emise lamento” (Is 53, 7)

Mi ha sempre affascinato l’immagine di un Dio debole, fragile, vulnerabile, che fa sue le miserie dell’umanità, si mette in gioco, non teme di sporcarsi le mani, sino a provare la beffa di essere rifiutato, respinto da coloro che sta cercando di amare, proponendosi come fratello e amico.
Purtroppo anche oggi avviene così. C’è sempre qualcuno pronto a colpire alle spalle. Dal giorno della resurrezione di Lazzaro la situazione precipitò. Gesù sapeva che i capi lo volevano morto e per la gente l’ordine era di denunciarlo, perché potesse essere
arrestato. Si sentiva braccato, stanco, sfinito fino ad esclamare nell’orto degli ulivi: “La mia anima è triste fino alla morte” (Mt 26, 38). Cercava aiuto, sostegno e lo trovò a Betania nella casa di Lazzaro, di Marta e di Maria, dove si sentiva a suo agio tra perso- ne che gli volevano bene. Circondato dal loro affetto fraterno, prese l’ultima decisone irrevocabile:

“Avendo amato i suoi, che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13, 1). La mattina seguente scese a Gerusalemme ed entrò deciso in città, circondato da una folla esultante, per dare compimento alla sua profezia: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32). Iniziò la Settimana Santa.

Quando meno ce lo si aspetta, in pochi istanti, la vita cambia e ci si ritrova sulla strada dolorosa. Vado spesso all’ospedale San Raffaele per la riabilitazione. All’ingresso c’è sempre un gran via vai di persone in attesa che compaia il proprio numero sugli schermi per l’accettazione. In un altro settore si ritirano i referti in busta chiusa. L’impiegata, dietro lo sportello, li allunga senza una parola. Mi è rimasta impressa una coppia di cerca 80 anni, lui malfermo sulle gambe, lei tremolante nella mani. Dopo aver ricevuto il referto, andarono a cercarsi due sedie libere e si sedettero. Si misero gli occhiali e l’aprirono. Un dischetto e il foglio con l’esito. La lingua dei medici non è di facile comprensione. La signora corrugò la fronte, mentre leggeva in silenzio. Scorreva con gli occhi in basso verso la diagnosi senza mai alzare il capo. Il marito aspettava di sapere il male che aveva addosso. All’improvviso la donna si fermò. Aveva incontrato una parola chiara. Chiuse in fretta il foglio. “Che dice?”, chiese lui. “Dice che devi fare altri esami”, rispose evasiva. Lo mise in nella borsa e lo aiutò ad alzarsi. Anche lei si fece più lenta nei passi. La borsa sembrava essere diventata più pesante con quella parola dentro. Lo prese per mano maternamente. Mi commossi vedendoli andare uno appoggiato all’altra, sostenendosi a vicenda, come il Cireneo con la croce di Gesù.

Può accadere un giorno di diventare la mamma o il papà di chi il Signore ci ha messo vicino, accompagnarlo come un bambino ai primi passi, verso dove Lui solo lo sa.
Le parole di Papa Benedetto XVI, raccontate da Marin Corradi sulle pagine di Avvenire del 6 gennaio, ci aiutano a entrare nella sofferenza e nella morte del Figlio dell’uomo per comprendere le nostre.

L’EREDITÀ SPIRITUALE DI BENEDETTO XVI E LA VOCE DI DIO NELLE NOSTRE SOLITUDINI

È un anno, che se ne è andato. Silenziosamente, in un’età molto avanzata. Avverto più netta ora la sua assenza. Mi è stato, come a milioni di altri, molto caro, Benedetto XVI.
La sua faccia da asceta, gli occhi chiarissimi, nordici, l’accento marcatamente tedesco, poteva non rendere immediata l’affezione, a un italiano. Ho cominciato a leggere i suoi libri. Da allora ho seguito le Udienze. Ogni volta trovavo una parola capace di ricrearmi.
Fra milioni di parole vuote, al mercoledì le miti parole di Benedetto, chiare come la spiegazione di un teorema eppure profondamente umane, e radicalmente cristiane. Pochi sanno dare vita attraverso le parole. Ratzinger era uno di quei pochi.
Solo una volta l’ho visto da vicino, quando incontrò in Vaticano la redazione di Avvenire.
Ho guardato il suo viso già anziano, pallido. Mi ha sorriso, gli ho baciato la mano. Mi è venuto naturale, per quanta gratitudine provavo. Una mia figlia, allora bambina, ricorda ancora la carezza di Benedetto sui capelli.
Amavo il suo tornare audacemente sul tema della sofferenza e del dolore. Argomenti che tutti eludiamo. Lui non aveva timore di affrontarli. Sapeva che anche per un cristiano il momento della sfida vera è la perdita, il lutto, il decadimento della malattia e della vecchiaia. Fatti che ci lasciano spesso senza parole, e a volte anche senza speranza.
Ci fu un giorno, il 2 maggio 2010, che mi sembrò il culmine della sfida di Benedetto XVI alla sofferenza e alla morte. Ho avuto la fortuna di vedere con i miei occhi, per Avvenire, la mattina in cui si inginocchiò in meditazione davanti alla Sindone nel Duomo di Torino.

Noi giornalisti naturalmente lo vedemmo da lontano. Ma mi è indimenticabile e caro il lungo silenzio del Papa in ginocchio davanti al telo che porta i segni del martirio di Cristo.
Di un innocente catturato, frustato, costretto a portare fino al Calvario la croce. E poi a quel legno inchiodato, dileggiato: “Se sei Dio, salva te stesso”; e le vesti giocate a dadi dalla soldataglia. Sotto agli occhi di sua madre. E poi il Sepolcro, e la notte del Sabato.
“Dio – disse Benedetto – fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. Ecco proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. È successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori”. Benedetto in ginocchio nella penombra del Duomo di Torino, indimenticabile. Mi torna in mente ogni volta che leggo di massacri, ferocia, bambini uccisi. Cerco di ricordarmi quel giorno: anche nel buio estremo è passato Cristo, è risuonata la sua voce.
Quando poi Benedetto XVI si è dimesso, per me come per molti, è stata un’ora drammatica. Non conoscevo le ragioni e nemmeno mi interessavano tanto: semplicemente, mi sono sentita abbandonata. Proprio da te, che ci insegnavi a sperare? Il fragore delle
pale dell’elicottero che portava Benedetto via da Roma: che incredulità, che angoscia.
Ammetto di avere provato del rancore per Ratzinger: come per un padre che abbandoni i suoi. Ho cercato di capire, mi sono detta che non ero in grado. Ci ho messo anni a perdonare – sì, ridicolo, a perdonare un Papa che mi aveva lasciato.
Ora, di undici anni più vecchia, comincio a capire il mancare delle forze, il senso di impotenza che forse Ratzinger ha avvertito, di fronte ai mali dentro e fuori della Chiesa. E torno a leggere le sue Omelie e Udienze, adamantine, dritte al centro della domanda più
vera: il dolore, la morte, perché, e in nome di chi non lasciarsene sommergere.
Domanda così attuale, dall’Ucraina ai Kibbutz del 7 ottobre, al massacro di Gaza. Mi pare che silenziosamente ci abituiamo, ci lasciamo vincere da tanto male. Bambini bruciati o lasciati morire di fame: che cosa resta da dire? Quella voce mite: “Nel regno della
morte è risuonata la voce di Dio”.

Nella notte del Sabato, Cristo è passato laggiù nel fondo del buio, fra i dannati, i senza Dio, gli annientati. Lui è stato lì. Non fosse che per quella parola e per quel lungo abbandonato silenzio, a Benedetto sono sempre grata.

don Franco Colombini