Sotto il Campanile 25 Febbraio 2024

Pubblicato giorno 21 febbraio 2024 - Avvisi, In home page, NOTIZIARIO

 

 

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II DOMENICA DI QUARESIMA
25 Febbraio 2024 – Foglio n. 251
“Se tu conoscessi il dono di Dio” (Gv 4, 10)
Alle otto del mattino sono tutti di fretta a Milano: le mamme con i bambini, gli impiegati, gli studenti, i fattorini. Pochi a quell’ora stanno fermi: solo i mendicanti fuori dai supermercati o ai semafori. L’altro giorno, mentre ero in sosta in attesa del verde, mi si avvicinò un ragazzo di colore molto insistente con un foglio scritto in italiano: “Mia moglie non ha più latte in polvere per il bambino”. Di simili biglietti purtroppo ne ho visti tanti. Non lo presi sul serio e me ne andai, anche perché avevo molta premura.
Ma all’improvviso qualcosa mi ha fermato: e se quel ragazzo dicesse la verità? Ho rivisto i suoi occhi, le mani tremanti, la voce affannata. Ho fatto il giro dell’isolato, sperando di trovarlo ancora all’incrocio. Gli ho dato i soldi per una scatola di latte. Di scatto si avviò verso la prima farmacia lì accanto. Fu un attimo ed è tornato indietro, come se avesse dimenticato qualcosa. “Che Dio benedice tu”, mi ha gridato e poi via di nuovo verso la farmacia. L’ho visto bene in faccia: il sorriso sui denti candidi, gli occhi neri sgravati dall’angoscia, la voce più serena. Per quel giorno il suo bambino avrebbe mangiato. Era davvero un giovane papà, che pativa la fame e si umiliava per il figlio affamato. Ma in quel momento era l’uomo più felice del mondo. L’amore non ha limiti, non si arrende e sa fare miracoli. Ho pensato ai tanti bambini fortunati che battezzo e a tutti quelli che subiscono fame e violenza, fino a rischiare la vita nelle acque gelide del Mediterraneo.

Imperdonabile se non mi fossi fermato. Fu un sguardo a catturarmi ed è bastato. Forse avvenne così anche per Gesù al pozzo di Sicar. Per incontrare la samaritana allungò il tragitto e superò qualsiasi regola e convenzione legale. “Ho sete. Dammi da bere”. Poche parole, pronunciate come nessun altro e la donna si lasciò prendere da quello sguardo di compassione che la scrutava nel profondo e leggeva ogni cosa con amore. Anche gli errori, le debolezze, la fragilità.
Mi piacerebbe condividere la sete di Gesù, mettendo i miei piedi dentro le orme dei suoi sconfinamenti, sicuro che in ognuno c’è “un crepaccio assetato di Infinito” (Soren Kierkegaard).
La sua era “una sete d’amore per le persone, prese così come sono, con le loro povertà e le loro ferite, con le loro maschere e i loro meccanismi di difesa, anche con tutta la loro bellezza” (Jean Vanier).

Anche oggi il cuore di Gesù brucia dalla voglia di liberare le energie più nascoste, perché possiamo diventare come lui, viandanti stanchi e assetati, uomini e donne capaci di compassione, generatori di speranza, anche con un solo sguardo compassionevole gettato
sulle disperazioni umane, come è avvenuto con Vy, una vietnamita che – stando al racconto di Elena Molinari – nella durezza della società efficientista ha incontrato chi le ha permesso di riprendersi la vita.
L’ODISSEA DI VY, DA SAIGON A UNA CASA ATTESA PER ANNI
Vy Uyen ha sognato una casa per cinque anni. “Niente di speciale – racconta da una panchina di un parco di Houston – . Immaginavo di avere un tetto, di poter chiudere una porta alle mie spalle, di sentirmi al sicuro e poter pensare a curarmi e a cercare un lavoro. Perché quando sei per strada il tempo e l’energia vanno nel cercare da mangiare e nel difenderti dai pericoli, hai sempre paura”.
Nei cinque anni che ha passato in una tenda al Minute Maid Park, Vy è stata più volte avvicinata da volontari che le offrivano una notte in un rifugio. Ma per restarci c’erano sempre dei ma. Prima doveva completare un programma in dieci tappe per tossicodipendenti o un corso professionale.
Prima doveva incontrare uno psicologo almeno tre volte, compilare formulari, dimostrare che non c’era nessuno che poteva darle una mano o offrirle un letto. “Già questo mi metteva fuori gioco – spiega – perché avevo una figlia adulta in Arizona. Ma non sapeva neanche che vivevo per strada.
Forse lo sospettava, ma, quando la chiamavo, non faceva troppe domande e la capisco. Voleva entrare nella polizia. Perché rischiare che qualcuno scoprisse che sua madre viveva così?”.
Vy è nata a Saigon. Da piccola ha vissuto la devastazione della guerra e del dopoguerra in Vietnam. Come molti “amerasiatici”, nati da donne vietnamite e militari americani, è stata cresciuta dalla madre senza conoscere il padre. Ma a 21 anni è partita per gli Usa, dove aveva il diritto di entrare come rifugiata, sperando di trovare suo papà. “L’ho cercato per mesi, sapevo che veniva da Houston. Non l’ho mai rintracciato”. Vy ha cercato di mantenersi come manicurista.

Ha vissuto con altre ragazze in appartamenti minuscoli, è riuscita a tirare avanti per qualche anno.

Poi è rimasta incinta. “Ero disperata, avrei voluto tornare a casa, ma mi vergognavo troppo per chiedere aiuto a mia madre e ai miei parenti a Saigon. Alla fine ho perso contatto con loro”. Neanche rivolgersi alle associazioni di vietnamiti di Houston era un’opzione realistica. “La comunità vietnamita negli Stati Uniti è fatta di gente che lavora sodo e si sistema bene dopo essere arrivata.

Ti possono fare l’elemosina, ma giudicano male quelli che hanno problemi, come me”. Dopo aver partorito, Vy è stata colpita dalla depressione e i clienti del centro estetico hanno cominciato a lamentarsi dei suoi errori. Arrivava spesso in ritardo, perché non sapeva a chi lasciare la bambina. È stata licenziata.
Per alcuni mesi ha dormito con la piccola in un’auto abbandonata in un vicolo dietro alcuni magazzini. Poi ha preso la decisione più difficile della sua vita. “Ho dato mia figlia ai servizi sociali, perché la sistemassero in una famiglia in affido. Era il 2000. Ha cambiato spesso casa, ma sono riuscita a vederla ogni tanto per 15 anni. Io vivevo qua e là, in dormitori, rifugi, motel, roulotte. Ma le cose andavano male”.

La depressione peggiorava, Vy faticava a mantenere lo stesso impiego per più di un paio mesi, finché è scivolata nella dipendenza da crack. “È stato il periodo peggiore. Non ho visto mia figlia per anni”. Nel febbraio 2023, Coalition for the homeless, l’associazione che aiuta i senza tetto, collaborando da vicino con il Comune di Houston e altre non profit texane, ha trovato casa a Vy. Come prevede il nuovo programma “housing first” (la casa prima di tutto) della città, nessuno ha posto condizioni. Non le hanno chiesto se consumava ancora droga e se avrebbe seguito dei corsi di formazione. Le hanno dato le chiavi di un monolocale, qualche piatto e bicchiere, pentole e padelle, un letto, lenzuola, salviette.

Un’assistente sociale che la va a trovare una volta alla settimana. La dignità. Vy può restare nell’appartamento gratis per un anno. Il tempo sta per scadere, ma nel frattempo ha trovato lavoro nella nettezza urbana e potrà permettersi di pagare l’affitto. “Svuoto i bidoni e raccolgo le cartacce nel parco dove ho dormito per cinque anni – dice con un sorriso – .

Continuo a combattere contro la malattia mentale, ma posso farlo al sicuro”. Non appena avrà abbastanza soldi conta di andare a trovare la fi glia a Tucson. “Spero che veda quanta strada ho fatto e che mi accetti ancora nella sua vita”.

don Franco Colombini