scarica ==> sotto il campanile 26 Marzo 2023
V Domenica di Quaresima
26 Marzo 2023
– Foglio n. 218 “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11, 25)
Lazzaro e le sorelle Marta e Maria abitavano a Betania, un piccolo villaggio dietro il Monte degli ulivi. Gesù ci andava spesso. Si sentiva a casa. Gli volevano bene. Vi si rifugiò pochi giorni prima della Passione, di nascosto dai Farisei, che lo stavano braccando. Marta, per ringraziarlo del ritorno alla vita del fratello, offrì una cena in suo onore e Maria, scorgendo qualche preoccupazione sul volto del Maestro, gli lavò i piedi con un profumo prezioso e li asciugò con i suoi capelli. Una amicizia molto bella, carica di sentimenti, passione, emozioni! Anche noi dovremmo volerci bene così. Gesù si commosse “profondamente” sulla tomba di Lazzaro (Gv 11, 38). Pianse con le sorelle e i tanti amici che erano venuti a consolarle. La morte porta desolazione, sconforto, angoscia, paura. Anche in Gesù. Con l’animo, trafitto dal dolore, si aprì al Padre con una fede ancora più grande, quasi a provocarlo: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato” (Gv 11, 41). Le sue lacrime assomigliano al vagito di un bambino, quando viene alla luce. Piange mentre respira la vita che gli si spalanca davanti. L’amore lo portò oltre. “Lazzaro, vieni fuori! Il morto uscì, i piedi e le mani legate con bende e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: liberatelo e lasciatelo andare” (Gv 11, 43-44). Sembra una cosa inverosimile.
Papa Benedetto XVI commentò questo racconto con accenti semplici e profondi, come era solito fare: “Gesù abbatte il muro della morte, in Lui abita tutta la pienezza di Dio, che è vita, vita eterna. Per questo la morte non ha avuto potere su di lui; e la resurrezione di Lazzaro è segno del suo pieno dominio sulla morte fisica, che davanti a Dio è come un sonno”. La resurrezione ha scatenato infiniti pensieri nel tentativo di afferrarla e raggiungerne il significato. Dopo secoli e secoli ci troviamo sempre alla stessa distanza siderale. Gesù non affidò la realtà della resurrezione ai ragionamenti umani. Rispondendo a Marta e Maria, si definì lui stesso “resurrezione e vita” (Gv 11, 25), invitandoci a entrare nell’oggi di Dio, nel suo infinito presente. La fede è un fatto, non un’idea o una certa visione della vita e della morte. Compromettendoci con la persona viva di Gesù, condividendo la sua passione per il mondo e la storia, seguendolo fin nella morte, si tocca con mano che la bellezza della sua vita risorta già ci appartiene. Nasce una fiducia illimitata nel bene, che spinge a osare al di là di ogni speranza. Il sangue dei martiri ce lo conferma.
Anche quello di don Peppe Diana. Sabato 19 marzo 1994, solennità di San Giuseppe. Nella Parrocchia di San Nicola a Casal di Principe, don Peppe festeggiava il suo onomastico e si apprestava a celebrare la Messa delle 07,30. Accadde tutto alla velocità di un lampo. Un uomo si affacciò alla porta della sagrestia. Un killer della camorra. Lo chiamò per nome. Il parroco si girò e venne freddato con quattro colpi di pistola. La notizia si sparse in un baleno e scatenò il panico. Solo la fede permise di contrastare lo sgomento in quell’ora oscura. Per quanto sanguinaria e prepotente, so per esperienza che la camorra non si spinge mai a tanto. Non per devozione verso i luoghi sacri o la figura dei sacerdoti, ma per non inimicarsi i fedeli.
Tutti conoscevano don Peppe e la sete di giustizia, che lo animava, l’impegno nel contrastare la camorra, le denunce, i proclami, le sferzate, le omelie. Non aveva paura di nessuno. Il giorno di Natale scrisse e distribuì un volantino contro la violenza, la prevaricazione, la prepotenza, le lotte dei clan, smascherando crimini e misfatti: “Per amore del mio popolo, non tacerò”. La sua voce dava fastidio, incitava alla resistenza, esortava a vincere la paura, a uscire allo scoperto, a denunciare le ingiustizie. E alla camorra gli uomini liberi non piacciono. Decisero di eliminarlo, pur sapendo di andare incontro a un grosso rischio. Lo corsero, convinti di riuscire a depistare le indagini e a far ricadere la colpa su altri capi con l’inganno e la menzogna. Seguirono giorni dolorosi, concitati, confusi. La macchina del fango entrò subito in azione, seminando zizzania. Si vociferò di un movente passionale, poi di complicità con la camorra stessa. Parole bugiarde, che pugnalarono il cuore dei genitori Gennaro e Jolanda, dei fratelli Emilio e Marisa, del popolo di Casale, gli scout, la Comunità Cristiana di Aversa, l’intera Chiesa Italiana.
Ma la gente buona non si lasciò ingannare. Vinse la paura. Appese i primi striscioni e le lenzuola bianche alle finestre. Fu una “dichiarazione di guerra”. Ai funerali parteciparono migliaia di giovani e molti adulti. Il futuro andava finalmente rasserenandosi. Sono passati 29 anni da quella mattina. Dopo la croce, la risurrezione. La verità è venuta alla luce. Il sangue di don Peppe, come un seme nelle zolle della terra, ha risvegliato le coscienze, ha riaperto la strada alla speranza, ha dato vita a una foresta di associazioni, comitati, amministrazioni comunali, gruppi ecclesiali, volontari in lotta per la legalità, contro la prepotenza, l’estorsione, la violenza. L’iniquità umana può essere debellata e il male estirpato. Non è utopia crederlo. La storia procede a ritmi lenti e irregolari. Avanza di crisi in crisi verso la vittoria finale del progetto di Dio. “Tantum primavera”, presto sarà primavera. Gesù crocifisso e risorto ci assicura che il futuro è iniziato. È qui. Oggi è già domani.
Don Franco Colombini