Sotto il Campanile 30 settembre 2018

Pubblicato giorno 28 settembre 2018 - NOTIZIARIO

 

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V dopo il Martirio di San Giovanni Battista
30 Settembre 2018 – Foglio n. 41
GIORNATA DELL’ACCOGLIENZA

Gesù propone il buon samaritano come modello di amore, perché soccorre un uomo lasciato mezzo morto nel deserto. Anche oggi le strade della vita assomigliano a quella che da Gerusalemme porta a Gerico. Sono piene di uomini e donne percossi da prove e dispiaceri, derubati della loro dignità e libertà, piagati dalla fame, dalla miseria, dalla solitudine. Anche la ricchezza, spesso, è una peste che distrugge. Il delirio dell’onnipotenza conduce all’esaltazione di se stessi oltre misura con l’alcool, la droghe, i divertimenti ad alto rischio, la perversione, l’illegalità. Da questa umanità non è possibile fuggire. È necessario fermarsi, raccogliere, curare. La malattia del mondo occidentale è il nulla, il vuoto del cuore, la notte dello spirito, la noia, l’insoddisfazione. Questi batteri sono terribili. Aggrediscono e uccidono persino l’amore. La malattia delle donne e degli uomini del Sud del mondo è, invece, la fame, la sete, la miseria, la povertà, la guerra, la fuga, l’esilio. Fanno esplodere la violenza, il cibo amaro di chi non ha altro di cui nutrirsi.
Mi ha colpito la testimonianza di alcune donne della nave “Diciotti” lo scorso mese di agosto. Hanno detto di aver conosciuto “l’inferno in terra”, di aver subito “cose che nessuna donna dovrebbe sopportare”. Stuprate, tenute prigioniere, loro e altre compagne che non ce l’hanno fatta ad arrivare in occidente. Rimaste incinte, hanno partorito in prigione.

Come stringere con gioia dietro le sbarre il grembo che porta una nuova vita, dimenticate per settimane e mesi, mentre dal loro giovane corpo arrivano i segni di una gravidanza? Hanno saputo di essere madri di un figlio concepito nella violenza, quando ancora avevano negli occhi le facce degli stupratori e si sentivano addosso – forse per sempre – le loro mani lorde. E magari quel figlio avrà lo stesso volto dell’uomo che non dimenticheranno mai.

Nel tempo immobile di una prigione, si può giungere a odiare il figlio di un tale sopruso, a non volerlo, quasi fosse lui pure un invasore e il parto un’altra violenza. Poi nasce, viene alla luce e piange come tutti i bambini. Solo il seno materno lo acquieta. Si addormenta sopra fiducioso. Quanta dolcezza in quell’ abbandono inerme! Nel silenzio delle celle echeggiante di gemiti, l’odio, pur ragionevole, lascia il posto all’amore. Se lo stringe al petto, spinta da un istinto antico, più forte del male. È suo figlio e lo ama.
E poi, subito dopo, un’altra tragedia … . Il bambino ha fame e la madre non mangia a sufficienza. Il latte le manca. Vive nel buio e tra lo sporco. Quel figlio forte da venire al mondo senza esser voluto, in un tugurio, non regge alla fame e alle infezioni. Si fa livido. Il pianto diventa più flebile. Dorme quasi sempre, ma è sonnolenza malata che lo tiene quieto. Quanto dolore nel cuore di una madre, che vede arrivare la morte a rubarle il figlio e non poter far nulla per impedirglielo! Poi una mattina se lo trova tra le braccia inerte e piange disperata, per non volersene separare.

Non è questo, sussurrato in poche faticose parole da povere migranti, l’inferno delle madri? E quasi non ce ne accorgiamo. Restiamo indifferenti. È il colore della pelle che ci impedisce di immedesimarci o la paura di diventare troppi con loro? Chi fugge viene bloccato, persino riportato indietro, i porti sbarrati. Non possiamo accogliere tutti, dicono, ed è vero. E però lacera il pensiero di queste donne violate, e poi madri, che assistono impotenti all’agonia dei loro figli. Appena al di là del nostro mare.
La Giornata dell’accoglienza vuole essere un invito a spalancare le braccia a chiunque, a chi viene da lontano, a chi in mezzo a noi è solo e dimenticato. Milioni di persone non hanno nessuno a cui chiedere aiuto, vivono con pochissimi legami stabili e difficoltà a fare rete. Globalizzazione e isolamento coesistono e si danno man forte. Un peso per chi è malato, fragile, povero, per i bambini, gli adolescenti e soprattutto per gli anziani. È il grande problema umano, spirituale, politico del nostro tempo. La comunità parrocchiale è una speranza, una casa sempre aperta, un luogo sicuro di fraternità, dove ogni pezzo di pane viene spezzato e condiviso. Vivere insieme è bello e realizza il disegno di Dio: “Attirerò tutti a me”.

don Franco Colombini