Sotto il Campanile 31 Dicembre 2023

Pubblicato giorno 28 dicembre 2023 - Avvisi, In home page, NOTIZIARIO

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DOMENICA NELL’OTTAVA DEL NATALE DEL SIGNORE
31 Dicembre 2023
CAPODANNO – GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
01 Gennaio 2024

Il testo del Prologo di Giovanni, proposto in questa domenica di fine anno, ci porta là dove tutto ebbe inizio.

“In principio era il Verbo” (Gv 1, 1).”

Mi tocca il cuore e provo una gioia profonda sapere che in principio non c’era il caos, il nulla, il non senso, l’indicibile. C’era invece un
grandioso disegno spiegato da una Parola che, mentre dice, fa. L’inizio del mondo è carico di sapienza, perché tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv, 1, 3).

Come un architetto, Gesù era presente all’atto della creazione e la portava a compimento, lasciando la sua impronta in ogni cosa, fino a giungere a pienezza, quando “si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14).

Quale sorpresa! La luce diventò velata e la Parola, che danzava felice nel cuore di Dio, entrando nel mondo, non fu accolta. Ancora
oggi è così. Ha bisogno di testimoni che la annuncino con la vita. Resto attonito davanti all’amore di Dio, che non s’arresta, anche se incompreso. Anzi, si offre in un supremo affidamento. È il coraggio degli operatori di pace. “Significa tenere la testa puntata verso il sole, muovendo i piedi in avanti”.

Così Nelson Mandela definiva l’ottimismo, da non confondere con l’ingenuità o l’inconsapevolezza. Al contrario, richiede
l’immersione nella crudeltà della storia, senza rassegnarsi che diventi la parola ultima e definitiva.
Serve una buona dose di fiducia nell’essere umano e nel suo potere di cambiare se stesso e la realtà. Senza questo sguardo “trascendente” la leadership diventa amministrazione del disastro .
Gli esempi – da Gaza a Kiev alla lotta per il clima – si sprecano in questa temperie di terza guerra mondiale a pezzetti. Le armi dominano la scena globale, rivelando la totale incapacità di risolvere i problemi per cui vengono impegnate. L’unica trasformazione possibile passa per la “via dell’insieme”, il multilateralismo. Non è facile proporla al nostro mondo lacerato e diviso. Contro il disfattismo e la paura dell’osare, che spinge a non agire, Papa Francesco continua a regalarci la profezia di un “noi”
possibile, “Fratelli tutti”.

La storia di Maoz Inon, imprenditore diventato attivista dopo il massacro dei genitori, testimonia che
“nulla è impossibile a Dio” (Lc 1, 37). Sulle macerie dell’odio può sempre sbocciare un germoglio di
amore, che annuncia l’arrivo di una nuova primavera e la pace ormai vicina.
“HANNO BRUCIATO VIVI I MIEI GENITORI MA IL NEMICO È CHI VUOLE LA VIOLENZA”
C’è un prima e un dopo nella vita di Maoz Inon, 48enne di Binyamina, Israele. Il suo prima è segnato
da quella che lui definisce la carriera di un imprenditore sociale.

Al ritorno dal classico anno di viaggio intorno al mondo dopo il servizio militare, Maoz decide di aprire un ostello in una cittadina palestinese. “Volevo essere più informato sulla storia palestinese. Sono nato ebreo, sono nato in un kibbutz enon sapevo la differenza tra Eid El Adha o Eid El Fitr, non sapevo dove fosse nato Gesù, dove è stato sepolto … tutto è successo qui ma io lo ignoravo. Ho pensato che creando una guest house in una comunità araba come Nazareth, avrei istruito me stesso, e sarebbe stata anche una porta culturale per i miei ospiti. Non si trattava solo di affari, si trattava di cultura e di costruzione di una società condivisa”.
Il suo percorso imprenditoriale si è poi ampliato aprendo una catena di ostelli, gli “Abraham hostels and tours”, che offrono ai loro ospiti un’esperienza plurale e la possibilità di accedere ad una narrazione differenziata della storia.

Poi arriva il 7 ottobre. “Mi sono svegliato dopo le 7 e ho controllato le mie email e whatsapp. Nel gruppo famigliare mio padre aveva scritto che erano nella stanza di sicurezza, perché c’erano allarmi e sirene e per quanto possa sembrare folle, ho pensato che fosse abbastanza normale.
Allora sono sceso a fare il caffè con la macchinetta per mia moglie, e mentre il caffè saliva ho acceso la televisione e ho sentito dell’invasione di Hamas nelle comunità israeliane. Ho chiamato papà alle 7.30, mi ha detto che erano nella stanza di sicurezza che c’erano sirene e spari, e praticamente è tutto. Gli ho chiesto di mandare i miei saluti a mamma e di stare tranquillo che ci saremmo sentiti presto. Abbiamo riagganciato. Poi stavo guardando le notizie e la pagina su Instagram chiamata Eyeon Palestine. Ho
visto le recinzioni cadere attorno a Gaza e i camion e ho visto il posto che conosco così bene.

Erano le 7.45”. “Ho chiamato papà – continua. E questa volta non c’è stata risposta. All’inizio, anche se temevo il peggio, speravo fosse un guasto elettrico o forse la ricezione interrotta. Così ho chiamato le mie sorelle e mio fratello che vive a Londra. Abbiamo riprovato a chiamarli, a chiamare i vicini, ma non ha risposto nessuno. Quindi ci siamo riuniti tutti insieme a casa di mia sorella verso le 11, eravamo tutti lì. Le mie sorelle, i loro partner, tutti gli 8 nipoti dei miei genitori, e siamo rimasti lì, cercando di fare qualche te-
lefonata, cercando di chiamare qualcuno, cercando di non guardare troppo il telegiornale, e alle 5 del pomeriggio, mio cognato ha parlato con l’ufficio di sicurezza della comunità dei miei genitori, gli è stato detto che la casa dei miei genitori era stata ridotta in cenere con due corpi bruciati all’interno”. Circa 15 persone, su 900 residenti, sono state uccise sabato 7 ottobre a Netiv Ha’Asara. Si tratta di un moshav a carattere agricolo, costruito nel Negev/Naqab nord occidentale e dista circa 500 metri dal confine con la Striscia di Gaza.
Maoz e la sua famiglia non hanno atteso la comunicazione ufficiale della morte, sarebbe arrivata solo dopo 12 giorni e di sua madre, nemmeno ad oggi (15 novembre) è stato possibile effettuare il test del Dna. Subito il giorno dopo, domenica 8 ottobre, hanno iniziato la “shiva” ( dalla parola ebraica “sheva”, sette), cioè la settimana di lutto. Un momento intenso emotivamente, in cui la famiglia ha avviato il proprio percorso di commiato da Bilha e Yakovi, uccisi il giorno prima.

Al settimo giorno, risvegliandosi nella ferialità che riprende dopo il tempo sospeso della shiva, Maoz ha avvertito lampante dentro di sé la responsabilità di dover fare la sua parte, di doversi spendere per far sentire la sua voce ed interrompere il ciclo della violenza, “mi sento in missione”. Supportato dalla propria personale esperienza di perdita, ma anche da una convinzione molto realistica. “Tante guerre e invasioni a Gaza negli anni non hanno portato sicurezza. L’ultimo bilancio destinato alla Difesa dal governo israeliano è il più alto di sempre, ma il 7 ottobre abbiamo perso il maggior numero di civili dalla fondazione di Israele. Quindi i grandi muri,
le bombe nucleari, l’aeronautica più avanzata, non possono garantire la sicurezza, non possono portare sicurezza agli israeliani e, ovviamente, non ai palestinesi. Inoltre non è certo uccidendo civili innocenti che i miei genitori torneranno in vita. Solo attraverso un accordo reciproco, una convergenza su valori di uguaglianza e giustizia per tutti, possiamo creare un futuro migliore per israeliani e palestinesi.

Non ci sono scorciatoie. I nostri generali, i nostri politici, guardano la realtà attraverso il mirino del loro fucile.
Vedono il proprio interesse. Io scelgo di cambiare prospettiva. E non sono solo”.

Maoz sta lavorando incessantemente in queste settimane insieme alle famiglie che hanno perso qualcuno il 7 ottobre, alle famiglie dei rapiti, per riportare a casa gli ostaggi, fermare la guerra e far dimettere Netanyahu. Da una settimana circa hanno installato una presenza fissa di fronte alla Knesset (Parlamento Israeliano) a Gerusalemme per reclamare attenzione ed esigere che venga modificata la strategia politica di un governo che ritengono sia direttamente responsabile di quanto accaduto.

“Questo governo ha fallito nel compito primario di proteggere i suoi cittadini. Non solo, li ha lasciati completamente soli dopo. Nessun rappresentante del governo ha fatto visita durante i giorni del lutto, ha partecipato ad un funerale, inviato un biglietto di condoglianze o espresso vicinanza. Questo è un governo che sta adottando i metodi di un regime autoritario, perché ha paura del suo popolo, e sa di avere grosse responsabilità. Bisogna lavorare ora per riportare a casa gli ostaggi, fermare la guerra e far dimettere
Benjamin Netanyahu.

In questo “dopo” Maoz identifica come suoi nemici tutti coloro che scelgono estremismo e violenza, da un lato Hamas che ha ucciso i suoi genitori, che governa Gaza in maniera non democratica, opprimendo i suoi residenti; ma allo stesso tempo indica come suoi avversari anche i membri estremisti del suo popolo e del governo israeliano: “Persone come il ministro Smotrich, che ha incendiato Hawara, è mio nemico. Il ministro che ha invitato ad usare la bomba atomica a Gaza è un nemico; quelli che dividono i cittadini israeliani tra ebrei e arabi e forniscono armi ai cittadini, che è esattamente l’opposto di quanto deve fare un governo, chi governa deve proteggere i cittadini e non il contrario”.

È necessario un intervento internazionale perché le attuali leadership non solo non sono in grado di cambiare prospettiva, ma hanno anche interesse affinché permanga questo tragico status quo. Secondo Maoz serve una coalizione ampia a livello internazionale che riporti al tavolo dei negoziati e traghetti la regione verso un orizzonte di giustizia e di sicurezza per tutti: “Non sono un politico, non sono un diplomatico, ma credo che oggi abbiamo bisogno di un aiuto esterno”.

I genitori di Maoz erano nati e cresciuti in kibbutz. La madre, Bilha, era un’artista che già negli anni ’80
creava con materiali di riciclo: “d’estate ci faceva raccogliere i bastoncini dei gelati per riutilizzarli nelle
sue creazioni. Negli ultimi anni utilizzava invece i mandala nella sua attività espressiva. Me ne aveva
regalato solo uno, di migliaia fatti insieme, che riportava la frase “realizziamo i nostri sogni quando ci
permettiamo il coraggio di perseguirli”.

Il padre invece, Yakovi, era un agronomo e un contadino. Appassionato di terra e raccolti coltivava
grano. “Dalla sua giovinezza fino al suo ultimo giorno avrebbe coltivato la terra. Mio padre seminava il
grano nei campi, ogni anno seguiva la storia delle sue spighe”. “Di anno in anno in ascolto. Il primo anno
una siccità. Il secondo un’alluvione. Il terzo anno un’invasione di insetti. Il quarto un bellissimo raccolto,
ma la crisi mondiale era esplosa e quindi nessuno l’aveva comprato. Alla fine di ogni stagione ci diceva
che l’anno seguente avrebbe seminato di nuovo, che l’anno dopo sarebbe stato migliore. E io adesso
continuerò a seminare con il coraggio di mia madre e l’ottimismo di mio padre”.
don Franco Colombini