Sotto il Campanile 31 Marzo – Santa Pasqua

Pubblicato giorno 28 marzo 2024 - Avvisi, In home page, NOTIZIARIO

 

 

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DOMENICA DI PASQUA
31 Marzo 2024 – Foglio n. 256
Il Signore è risorto. Egli ha vinto la morte. Alleluia!

Perché il dolore? È l’eterna domanda che inquieta la fede. “Non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti
al mondo, è tornare là donde si è venuti”. Un sentimento accorato e nichilista raccontato da Sofocle nella tragedia “Edipo Re”, che mi è rimato impresso fin dai lontani anni del liceo. La presenza del male nella storia, la mostruosità della sofferenza, l’orrore dei massacri, la durezza della morte hanno sempre tormentato l’esistenza umana, gettandola nell’angoscia, e l’hanno aperta al mistero di un Dio che salva. Solo un Dio che può fare giustizia e asciuga le lacrime è un Dio che vale la pena desiderare!
Quanta gente nelle ore più buie mi ha detto: “Dov’è il tuo Dio?
Perché non interviene quando gli uomini gridano a lui lacerati dal dolore? Perché non ascolta il pianto di una mamma al capezzale del figlio? Perché ha creato l’uomo libero, sapendo che avrebbe causato infinite tragedie? Perché non ha rinunciato a questo progetto e non ne ha in- ventato un altro?”. Anch’io spesso, travolto dalla disperazione di chi mi è accanto, rivolgo a Dio le stesse domande: perché?
Nel silenzio della preghiera guardo il Cristo crocifisso, che è sceso agli inferi, ed è risorto carico del peccato del mondo. Anche oggi, in questa Pasqua, Gesù raggiunge l’umanità nell’inferno delle guerre, delle violenze, del terrorismo, dei popoli che vedono i loro figli morire di fame, dei fondali del Mediterraneo, dei valichi freddi divenuti cimiteri di esseri umani. Ci cerca nelle car- ceri, negli ospedali, nelle case di cura e di riposo, nelle corsie degli ospedali psichiatrici, nelle famiglie spaccate, nelle piazze dove si vende lo sballo, nel vuoto dei cuori, nel deserto delle esistenze, nella depressioni della solitudine … . Incalcolabili sono gli abissi umani! Ma Lui c’è.
Non abbandona gli amici che ama.
La pasqua è una sfida alla rassegnazione, ci stimola, ci appassiona, ci brucia il cuore fino a farlo diventare “pazzo di Dio”. Ci dice che tutto diventerà nuovo. “Non temete!”. La voce degli angeli ci assicura che il Signore è risorto e porrà fine al regno del male, farà scaturire la vita più bella e splendente di prima, la morte non potrà più essere il destino finale dell’avventura umana e il futuro non finirà.
“L’odio è forte, ma ci sono altre voci. Tante! E c’è un rimedio. Ad ogni atto di odio dovremmo rispondere con un atto d’amore. È quello che sto cercando di fare”. Così ha scritto nel suo Diario Etty Hillesum, ebrea olandese, vittima dell’Olocausto. Anche don Peppe Diana, il Parroco di San Nicola a Casal di Principe, ci ha creduto e si ribellò allo strapotere dei clan camorristici. Fu freddato da un killer mentre si apprestava a celebrare la Messa del mattino. Il suo sangue, dopo 30 anni, parla ancora e sostiene il coraggio di tanta gente, preti e vescovi di frontiera. Don Maurizio Patriciello – il prete della Terra dei fuochi – lo ricorda con accenti commossi dalla pagine di
Avvenire del 19 Marzo di quest’anno.
PIANTARE SEMI D’AMORE TRA LE MINE
Sabato, 19 marzo 1994, festa di san Giuseppe. L’aria tiepida già profuma di primavera. Non sono ancora le otto del mattino quando il telefono squilla: “Hanno ucciso don Peppe”. Nella casa di Dio. Prima della Messa. Corro. Peppino è là, entrando in chiesa a destra, riverso nel suo sangue. Il sangue dei martiri è il sangue di Cristo. Piombiamo nell’angoscia, lo smarrimento prende il sopravvento. Si capisce subito che la sacrilega esecuzione è stata decretata dalla camorra. Ma perché?
Immediatamente iniziano i depistaggi. “Calunniate, calunniate, qualcosa resterà!”, disse qualcuno. Non aveva tutti i torti. La macchina del fango entra in azione alla velocità del lampo. Schizzi puzzolentissimi di sterco velenoso arrivano a sfiorare perfino coloro che della camorra hanno avuto sempre orrore. I credenti si aggrappano al Vangelo: “Beati voi quando vi insulteranno …
e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi, per causa mia …”. La verità, lentamente, inizia a farsi strada. Certo, don Peppino non appartiene alla schiera di santi comunemente intesi.
I suoi modi sono spicci, il linguaggio tagliente. Niente di affettato, in lui. Spigoloso, autentico. I suoi orizzonti spaziano al di là dei confini diocesani. Non tormenta le parole per farle dire ciò che non vogliono dire. Sa di vivere in terra di camorra. Tanti criminali li conosce di persona, abitano a quattro passi da casa sua. Sono suoi amici d’infanzia, di studi, di giovinezza.
Strade. Ognuno deve percorrere la sua. Itinerari. Non si capisce tutto e subito. Il Signore ti porta per vie sconosciute. Gradualmente ti fa avanzare, facendoti innamorare del bene, in tutte le sue forme. La prepotenza sui deboli ti diventa insopportabile. Capisci che il tuo posto è stare accanto a loro, agli umiliati dalla vita. Anche per Peppe fu così. Le mafie sono il male. Con i mafiosi non si scende a compromessi. Non sempre lo abbiamo capito. Non per colpa, per carità. Fare, però, oggi un onesto e coraggioso esame di coscienza è doveroso. Sacerdoti collusi e corrotti, negli anni, ce ne saranno stati, inutile negarlo, ma sono un’infima minoranza. Nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a un’incomprensione del fenomeno.
Non era facile, nei passati decenni, nel nostro amato Meridione, districarsi nei meandri di una società agricola, povera, arretrata, trascurata dagli anni dell’Unità d’Italia, in balia dei ricchi proprietari terrieri. I mafiosi, i camorristi, gli ‘ndranghetisti, sono camaleonti. Si mimetizzano. Sono ipocriti e vigliacchi. Non attaccano gli uomini di Chiesa frontalmente, li circuiscono, li confondono,
li ingannano. Scaltri come serpenti, vivono tra la gente cui succhiano il sangue. Prendono parte alle feste patronali, fanno benedire i loro morti e battezzare i figli. S’inchinano davanti al vecchio parroco prima di correre a strangolare un uomo e scioglierlo nell’acido. La stessa società civile negli anni passati brancolava nel buio. Per la mafia siciliana occorrerà attendere le rivelazioni di Tommaso Buscetta a quel grande magistrato, che fu Giovanni Falcone, per capire com’era organizzata “Cosa nostra”. Gli sterminarono la famiglia. A Palermo, sei mesi prima dell’assassinio di don Diana, la mafia ammazza uno sconosciuto prete di periferia. Don Pino Puglisi, quel giorno compie 56 anni. Quale minaccia avrebbe potuto rappresentare, per gli spietati fratelli Graviano, il parroco di Brancaccio? Di cosa hanno avuto paura questi giovanotti forti, vigliacchi e sanguinari?
Semplice: il prete va piantando semi d’amore nello stesso terreno dove loro vanno occultando mine. Un lavoro umile, assiduo. Gratuito. Don Pino vuole bene alla sua gente. Chiede, sì, alle autorità costituite, ma per i ragazzi del quartiere. Territorio conteso dunque, la sua parrocchia.
Eterna lotta fra il bene e il male. I fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, mafiosi di altissimo livello, non riescono proprio a sopportarlo. Sono arrabbiati. Volentieri gli restaurerebbero la chiesa, se solo quel prete glielo chiedesse. Un suo atto di sottomissione nei loro confronti li manderebbe in visibilio. Don Pino però è un uomo libero. Non li teme, ma nemmeno li combatte frontalmente. Va per la sua strada. Sereno, fiducioso. I giovani, i bambini lo seguono, di lui si fidano. Qualcuno lo mette in guardia. Lui ascolta, ringrazia. Sorride.
Prete antimafia, don Puglisi? Prete anticamorra, don Peppino? Macché. Preti. Preti e basta. Preti senza aggettivi. Martiri perché liberi. Si chiamano ambedue Giuseppe, i miei confratelli, come il silenzioso custode del piccolo Gesù. Ed essi, come il santo di cui portano il nome, si sono fatti sentinelle attente del popolo loro affidato.
Le prime parole che don Peppino scelse per quel famoso documento scritto per il Natale del 1991 non erano sue: le aveva prese in prestito dai vescovi campani che, a loro volta, le avevano tratte dal profeta Isaia: “Per amore del mio popolo non tacerò”. E non tacque. E chiede a noi oggi di non tacere. Altri pensarono di tappargli la bocca. La farina del diavolo, però, finisce sempre in crusca.
La morte non solo non la serrò, quella bocca, ma la fece gridare a squarciagola. La sete di giustizia dei nostri due preti martiri meridionali varcò i confini regionali e anche nazionali. La loro testimonianza è stata per l’Italia e per la Chiesa del nostro tempo un vero terremoto. Le mafie sono belve maledette, che sguazzano nell’acqua putrida di una “ cultura” maledetta. La cultura del “non vedo,
non sento, non parlo, non m’importa”. Occorre bonificare la palude. E in fretta. Siamo già in ritardo.
Due secoli sono tanti.
Sono trascorsi 30 anni da quella mattina. Il testimone è passato a noi e a chi verrà dopo di noi. Vietato tirare i remi in barca. Vietato ogni pur minimo cedimento alla mentalità mafiosa. Per tutti, non solo per i preti. Obbligatorio ripetere – con le parole e con la vita – il grido di San Giovanni Paolo II nella valle dei Templi ad Agrigento: “ Mafiosi, convertitevi!”. Necessario ricordare le parole di Papa
Francesco in Calabria: La ‘ndrangheta è “ adorazione del male” e disprezzo del bene comune”.
La storia delle mafie in Italia non è un problema solo del nostro Sud, ma dell’intera Nazione. Ai mafiosi, insieme a don Diana e don Puglisi, vogliamo ripetere: “ Convertitevi! Smettetela di ingannare e di ingannarvi. Smettetela di tormentare la nostra terra. Ritornate ad essere uomini. Non spalancate ai vostri figli le porte del carcere duro o del camposanto. La vostra è una guerra perduta in
partenza perché sempre e dovunque “forte come la morte è l’amore”. Grazie, don Peppino caro.
Prega per noi.
don Franco Colombini