Sotto il Campanile 4 Febbraio 2024

Pubblicato giorno 2 febbraio 2024 - Avvisi, In home page, NOTIZIARIO

 

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PENULTIMA DOMENICA DOPO L’EPIFANIA
GIORNTA DELLA VITA
04 Febbraio 2024 – Foglio n. 248

“Voglio l’amore e non il sacrificio” (Os 6, 6)

Gesù era”un Rabbi che amava i banchetti”. Attorno alla tavola la sua Parola penetrava nell’animo di chi  lo ascoltava. Che fosse un pubblicano o un fariseo a invitarlo non faceva differenza. A lui importava il Vangelo. Spesso il suo modo di agire scandalizzava i benpensanti, come quando accettò i baci e le carezze di una donna di cattivi costumi, disattendendo le norme che distinguevano il puro dall’impuro. È venuto per i peccatori, non per coloro che si ritengono giusti. Simeone era l’uomo della Legge e della distinzione, Gesù l’uomo della tenerezza e dell’accoglienza. Gli occhi della Legge registrano i fatti, senza accorgersi di quanto avviene nel cuore.

Quelli dell’amore raggiungono le ragioni e gli insondabili itinerari dello spirito. Pier Paolo Pasolini disse di Madre Teresa di Calcutta che aveva “uno sguardo che, quando guarda, vede”. E ama. La bontà e la tenerezza di questa piccola suora albanese ci permettono di celebrare la giornata della vita.

Ricordo ancora la piccola Indi, la bambina fatta morire anzitempo, perché considerata non attrezzata per la vita come la intende oggi il mondo dei sani. Proprio la sua grande fragilità impone invece di chinarsi su tutte le Indi del mondo con infinita delicatezza e rispetto, guardandole nella loro dignità infinitamente più grande di ogni malattia. Nel mondo che vogliamo non ci devono essere vite a punti, con l’accesso alle cure negato ad alcuni, perché troppo malati o indigenti. Nessuno mai è “troppo” o “di troppo”. Qualunque crepa in questa certezza è un colpo di piccone ai diritti innati e inalienabili di ogni persona umana. Spesso mi chiedo perché ci si arrabatta tanto per sostenere il suicidio assistito e l’eutanasia e c’è invece tanta inerzia verso la cura delle persone sofferenti nel corpo e nello spirito in solidale fraternità. Siamo forse più liberi quando chiediamo di attrezzare nelle istituzioni politiche, giuridiche e sanitarie
percorsi di morte? Non è meglio costruire tutti insieme una società della cura, accogliente, non selettiva, dove a nessuno viene negato l’essenziale per vivere? Domande inevitabili, forse moleste, in queste ore travagliate del nostro tempo, che si rassegna a farsi portar via persone deluse o stanche di vivere e assiste impotente allo strazio di chi vede morire tra le proprie braccia una figlia troppo imperfetta per i criteri di un mondo impaziente.

Una lettera, scritta al Di rettore di Avvenire il 24 novembre scorso, testimonia la forza di una “bambina” che non sapeva di esistere, ma si accorgeva di essere amata. Era quanto le bastava per essere felice e dare gioia a chi le stava accanto.

SI È SPENTA NEL SILENZIO LA VITA INUTILE DI CARMEN MA È STATA UN GRIDO ALLA VITA E ALL’AMORE PER 38 ANNI
Caro direttore il 2 novembre scorso è morta la “bambina” di 38 anni, Carmen Ciocca di Trezzo sull’Ada “Avvenire” in passato aveva scritto. A soli due mesi di vita le era stato riscontrato un papilloma dei plessi coroidei del corno occipitale del ventricolo laterale destro. Viene operata e pochi giorni dopo la diagnosi clinica è come un macigno: tetraparesi, grave cerebropatia in esiti di tumore cerebrale. Qualche medico consiglia i genitori, Carlo e Camilla, di “lasciarla morire perché non avrà mai alcun miglioramento”. I genitori non li ascoltano e decidono di non abbandonare la figlia in un centro ospedaliero, ma di assisterla a casa.
Camilla lascia il bar che gestisce a Trezzo, per stare tutto il giorno, e tutta la notte, con la figlia. “Ho trascorso questi 38 anni sempre con la mia “principessa” – così la mamma ha sempre chiamato Carmen – tenendola in braccio gran parte del giorno, perché lei era tranquilla solo quando era in braccio. L’ho lasciata sola quando sono stata ricoverata per un tumore. Ora per un intervento prodigioso
del Cielo sto bene”.
La configurazione ossea e fisica di Carmen era quella di una bambina di pochi mesi, pesava sui 25 chili, e di più non poteva crescere; era gracile, cagionevole di salute. Quando doveva essere sottoposta a esami, veniva trasportata su un lettino realizzato dal papà, che gli operatori sanitari posizionavano sull’ambulanza. La medicina non è riuscita a dare spiegazioni scientifiche all’esistenza di Carmen: il suo quadro clinico era unico. Se molti medici hanno aiutato e sostenuto i Ciocca nell’assistenza a Carmen, altri li hanno invitati a essere “ realisti”:
per lei non vi è alcuna speranza, il suo cervello “non evidenzia alcuna attività”, tanto vale, quindi, “lasciarla morire, perché è solo un peso per la società”. Frasi che spezzavano il cuore a Camilla e Carlo. Loro rispondevano dimostrando per Carmen ancora più amore. Sull’immaginetta della sua Prima Comunione avevano scritto: “In ciò che appare piccolo e fragile si sprigiona la forza e la tenerezza
di un Dio che soffre e ama”. Quando riceveva la Comunione – e di questo neppure i medici riuscivano a dare una spiegazione – da sola sollevava leggermente la testa ed apriva la bocca per ricevere la piccola porzione di Ostia. A sostenere i Ciocca nell’assistenza, da 23 anni c’è stata Svetlana, più che una “badante”, una sorella, un’amica: dall’Ucraina ha portato un abito bianco da “principessa” per Carmen e quel vestito le è stato fatto indossare il giorno della morte.

Carmen ha “scelto” di morire proprio il 2 novembre, giorno in cui il Servizio Sanitario aveva deciso di ricoverarla in una struttura di assistenza del “dopo di noi” – a spese della famiglia – perché il papà avendo raggiunto gli 80 anni, non poteva più fare da “tutor” a sua figlia, mentre la mamma è ammalata. Camilla e Carlo si sono sempre opposti a tale decisione. E Carmen ha “pensato” di non arrecare
un simile dolore ai genitori ed è andata in Cielo.
Caro direttore, la “vita inutile” di Carmen è stata un grido alla vita e all’amore, proprio in un tempo in cui si parla spesso di eutanasia e di “fine vita”.

don Franco Colombini