Sotto il Campanile 7 Marzo 2021

Pubblicato giorno 6 marzo 2021 - Avvisi, NOTIZIARIO

 

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III DOMENICA di QUARESIMA 07 Marzo 2021 –

Foglio n. 141 “Se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno” (Gv 8, 51)

Gesù ebbe amici straordinari, che lasciarono ogni cosa per seguirlo. Abbandonarono il paese, la famiglia, il lavoro, condividendo le fatiche e i disagi della strada, senza “una pietra dove posare il capo” (Lc 9, 58). Credettero alla sua parola. Furono testimoni delle grandi opere di Dio e disposti a sacrificare la vita. Ma Gesù ebbe anche molti nemici. Lo accusavano di essere un sovversivo, di violare il sabato, di non rispettare le prescrizioni della Legge. Lo descrivevano come una minaccia per il popolo. Temevano di essere smascherati e di perdere la faccia, il potere, il prestigio. Si sentivano in pericolo. Avevano paura. Cercavano l’occasione propizia per toglierlo di mezzo. Erano invidiosi. Oggi il Vangelo ci mostra quanti, rimproverati da Gesù di falsità, reagirono accusandolo di essere un indemoniato. Chiusi alla verità, non avevano la minima intenzione di mettersi in discussione e rivedere le proprie convinzioni. La vita per Gesù non è stata facile. Purtroppo non tutti ci vogliono bene. Capita sovente di imbatterci in chi ci vuole male senza sapere il perché. Cerchiamo di parlare, spiegare, stare vicino, fare del bene, aiutare a crescere nella conoscenza di Dio e della sua parola, ma preferiscono reagire criticando e polemizzando. Le saracinesche del cuore e della mente rimangono chiuse. I pensieri forti schiavizzano, omologano, appiattiscono, tolgono la tensione alla verità, rendono sospettosi, inaridiscono il cuore, rinnegano l’amicizia, recidono i legami, colpiscono con la menzogna, la maldicenza, il disprezzo.

Gesù non rifiutò mai il dialogo, neppure con i suoi avversari. Andò oltre le calunnie e i pregiudizi. Gettò il seme nei cuori confidando nello Spirito. Visse nel pericolo amando. Così fecero l’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere, che lo scortava, Vittorio Iacovacci, uccisi dai ribelli nel Nord Kivu, mentre andavano a visitare una scuola. A fare del bene. Conosco quella terra d’Africa. Sono stato un mese in una missione del Sud Kivu a Murhesa. Con me c’erano Fabrizio e Marco, due giovani della nostra comunità. Ricordo di aver pregato a lungo davanti alla cattedrale di Bukavu sulle tombe di due Vescovi assassinati per aver chiesto alle fazioni in lotta di deporre le armi e fare la pace. Uno fu avvelenato e l’altro trucidato col machete. Numerose formazioni armate fuori controllo seminano morte e distruzione. Focolai di ebola esplodono all’improvviso falciando via vite umane tra sofferenze indicibili. È una delle Nazioni più ricche del mondo per materie prime con una popolazione tra le più povere del pianeta. Un paradosso. Uno scandalo geologico. I miliziani trafficanti di armi e mercenari si appropriano e (s)vendono un bene comune mai condiviso. Il mondo occidentale, preoccupato solo di respingere chi scappa, finge di non vedere. Tace. E gli innocenti muoiono. Quanto è capitato in Congo è raccapricciante. Un fatto terribile. Siamo venuti a conoscenza di questi uomini quando sono stati uccisi. Come se fosse stata la morte a farne degli eroi e non la profonda giustizia con cui sono vissuti. È questo il filo che unisce tante vite spezzate.

Medici, missionari, ambasciatori, volontari, militari in missione di pace, un esercito di uomini e donne a servizio del bene. Persone convinte che l’unica forma di eroismo accettabile è compiere il proprio dovere. Voler bene. Difendere la pace. Proteggere gli indifesi. Aiutare a rialzarsi. Lottare contro le malattie, le povertà, l’ignoranza. Operare per la giustizia. Luca Attanasio andò oltre il suo ruolo di ambasciatore. Avvertiva nell’animo la responsabilità di portare sviluppo e cooperazione. Ogni giorno si scontrava con la miseria più nera. Se la sentiva addosso. Lo interpellava. Viveva la professione come una missione. Un manager, la cui “azienda” da far fruttare era l’umanità a lui affidata. Con la moglie Zakia Seddiki, madre delle sue tre bambine, aveva fondato la Ong “Mama Sofia” per dare un destino migliore a 14mila ragazzi di strada. Con i fondi della Conferenza Episcopale Italiana stava per costruire una nuova casa, dove accoglierli con più dignità. “Ridisegniamo il mondo”, era il sogno di Luca e Zakia. Proprio come Giuseppe Coletta, brigadiere dei Carabinieri ucciso il 12 novembre 2003 a Nasiriyah. Divenne famoso suo malgrado, a causa della strage più sanguinosa di militari italiani dal dopoguerra. Terminato il lavoro, portava cibo e farmaci alle popolazioni nomadi del deserto.

“Qui i neonati muoiono, perché manca tutto, persino la soluzione fisiologica e una incubatrice”, scriveva alla moglie Margherita, con la quale organizzava l’invio di aiuti umanitari nei Paesi dilaniati dalle guerre e dalla fame. Amava farsi ritrarre in mezzo ai bambini con cui faceva il girotondo tra le macerie create dai grandi. Fu così anche per Annalena Tonelli, uccisa in Somalia un mese prima di Coletta. “I senza voce, quelli che non contano nulla agli occhi del mondo, ma grandemente agli occhi di Dio, hanno bisogno di noi. Noi dobbiamo essere con loro e non importa se la nostra azione è come una goccia nell’oceano”, così scrisse qualche giorno prima di soccombere sotto i colpi di un commando islamista. Le avevano teso un agguato mentre tornava dagli ammalati, che serviva da trent’anni. Il mondo seppe di lei dopo la morte. Lasciò in consegna poche parole, che valgono un testamento: “Non parlate di me, che non avrebbe senso, ma ora tutti insieme incominciamo a servire il Signore, perché fino ad ora ben poco noi abbiamo fatto”.

E ancora mi torna alla mente la figura di Carlo Urbani. Non saltò in aria su una mina né fu mitragliato, ma sacrificò la vita per salvare il pianeta da una terribile pandemia. Era il 2003. Allora non immaginavamo da quale Calvario ci avesse preservati, eppure tutto il mondo si commosse per quel medico in corsa per fermare il coronavirus della Sars. “Non sapremo mai quanti milioni di persone nel mondo ha salvato – disse di lui l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan – e non lo sapremo proprio perché grazie a lui sono vive”. Inviato dall’Oms come coordinatore delle Politiche Sanitarie del Sud-Est asiatico, quando individuò il virus, non coinvolse – come da prassi – i suoi infettivologi, ma scese personalmente in trincea e fermò il contagio. “Ho fatto dei miei sogni la mia vita e il mio lavoro”. Attanasio, Coletta, Tonelli, Urbani, uomini e donne umili, cresciuti in oratorio, legati ognuno a un parroco, che nei pomeriggi della loro infanzia tra merende, Messe, catechesi, giochi, palloni ha installato il germe dell’amore per gli altri. “Non abbiate paura, io ho vinto il mondo” (Gv 16, 33). La parola di Gesù li ha mandati in terre lontane, dove la rabbia dell’ingiustizia è esplosa in violenza. In Libano, nel silenzio di una missione di pace, senza far rumore, opera Federico, uno di noi, che crede in un mondo migliore. Ogni buon seme dà un germoglio. Ora anche a Kinshasa, in Africa, fino agli estremi confini della terra, molte vite saranno salve nel nome di tutti coloro che credono all’amore, di Luca, di Mustapha, di Vittorio, il suo Carabiniere alla prima missione.

 

don Franco Colombini